giovedì 29 gennaio 2015

boyd, It’s complicated

 
danah boyd, It's complicated
Non so se gli slogan sui “nativi digitali” hanno bisogno di sepoltura. In fin dei conti, anche se ogni tanto saltano di nuovo fuori, come gli zombie di un brutto film, ciò accade sempre più di rado. Il che non ha nulla di sorprendente: non solo gli slogan erano remotissimi dalla realtà, ma venivano contraddetti così di frequente dall’esperienza comune che il difficile non è spiegarsi la loro scomparsa, ma la loro (per quanto effimera) popolarità.
 
Nel caso ci fosse ancora bisogno di una lapide, tuttavia, l’ultimo libro di danah boyd (sì, si scrive così, senza maiuscole) potrebbe tornare utile. It’s complicated: The social lives of networked teens è infatti dedicato a mostrare la sostanziale continuità di abitudini, atteggiamenti e ragionamenti tra gli adolescenti statunitensi contemporanei e i loro predecessori. La differenza rispetto ai teorizzatori dei “nativi digitali” non è però solo nei giudizi: questo libro si basa su ricerche di prima mano, non su slogan privi di documentazione – e scusate se è poco!
 
L’autrice del resto prende di petto tutta la retorica sui “nativi digitali”, dichiarando che “is worse than inaccurate: it is dangerous” (p. 197). Difficile darle torto. Credere che l’uso di semplici interfacce di comunicazione fornisca intuizioni privilegiate sul mondo significa mettersi sulla strada giusta, soprattutto nel settore educativo, per smantellare ciò che fino a oggi si è fatto nel settore (e non è poco). Giusto per fare un esempio, l’esperienza mostra che né gli adulti né i ragazzi sono particolarmente bravi a capire in che modo funziona un motore di ricerca come Google, e quindi a capire che i risultati proposti spesso non sono neutri, ma sono il frutto di un’attenta selezione editoriale da parte di un’azienda privata. O, in altri termini:
 
just because people have access to the internet does not mean that they have equal access to information. Information literacy is not simply about the structural means of access but also about the experience to know where to look, the skills to interpret what’s available, and the knowledge to put new pieces of information into context (p. 172).
 
Va detto che le osservazioni presentate nel libro, e di cui quella appena vista è un buon esempio, sono quasi tutte banali. Si limitano infatti a esplicitare ciò che, in molti paesi sviluppati, è ben visibile a chiunque abbia a che fare con adolescenti. Tanto per dirne una, gli strumenti elettronici di comunicazione, più che creare strane reti sociali, contribuiscono di solito a rafforzare i legami con gruppi tradizionali. In Italia, per quanto manchino studi paragonabili, non si fa fatica a trovare equivalenti dei gruppi descritti da danah boyd: “quelli della parrocchia”, “i ragazzi del campetto”, “i compagni di scuola”, “gli amici del mare”… E “most teens aren’t addicted to social media; if anything, they’re addicted to each other” (p. 80). Tutto banale, insomma. Ma queste banalità non vengono dette quasi da nessuno in modo esplicito, anzi! In una situazione del genere chiamare le cose con il loro nome è quasi sovversivo e la banalità non solo è rivoluzionaria ma richiede un sacco di sforzo per essere raggiunta.
 
Oltre un certo livello, certo, la banalità (illuminante) finisce e i dati non parlano da soli. Somiglianze e differenze sociali non possono essere messe su una bilancia e misurate in modo oggettivo. Però danah boyd mette insieme una bella mole di esempi e di documentazione. Alla fine si vede che, per esempio, gli studenti statunitensi su Facebook tendono comunque a fare amicizie all’interno del proprio gruppo etnico, riproducendo le dinamiche che si trovano all’esterno. E quindi una studentessa che vive in una scuola multirazziale può accorgersi con un po’ di sorpresa che in realtà tutti i suoi amici che commentano le sue attività su Facebook hanno la pelle dello stesso colore della sua (p. 165).
 
Alla base della popolarità delle tecnologie informatiche danah boyd indica anche una causa specifica: la graduale infantilizzazione degli adolescenti nella società statunitense. Tagliati fuori dal mercato del lavoro, privi di luoghi d’incontro non sorvegliati nella realtà, spesso impossibilitati a spostarsi, senza macchina (né motorino, evidentemente…) all’interno di grandi suburbi privi di trasporti pubblici o nelle campagne, gli adolescenti si rivolgono alla comunicazione in rete per semplice mancanza di alternative. “What the drive-in was to teens in the 1950s and the mall in the 1980s, Facebook texting, Twitter, instant messaging, and other social media are to teens now” (p. 20). Tesi un po’ forte, non dimostrata in modo rigoroso, e che probabilmente è solo una piccola componente di ogni possibile spiegazione. Mentre è senz’altro più evidente che, per esempio,
 
Teens often want to be with friends on their own terms, without adult supervision, and in public. Paradoxically, the networked public they inhabit allow them a measure of privacy and autonomy that is not possible at home where parents and siblings are often listening in (p. 19).
 
Nel libro in pratica non si parla di questioni di competenza della linguistica (anche se un certo spazio viene dedicato al modo in cui le comunicazioni vengono “cifrate” per renderle comprensibili solo ad alcuni destinatari). Anche gli studiosi di lingua contemporanea possono tuttavia ricavare molte utili informazioni di contesto da questa fonte. E, ciliegina sulla torta: oltre ai formati tradizionali, il libro è scaricabile gratuitamente in PDF.
 
danah boyd, It’s Complicated: The social lives of networked teens, New Haven e Londra, Yale University Press, 2014, pp. xi + 281, download gratuito in formato PDF, ISBN 978-0-300-16631-6; scaricato da http://www.danah.org/books/ItsComplicated.pdf . Di questo libro è stata fatta anche una tempestiva traduzione italiana, che però non ho ancora visto.
 

martedì 27 gennaio 2015

La comunicazione politica italiana e Facebook

 
«...e tu pensi che un premier abbia il tempo di rispondere ai post?»
Sul “Magazine” del sito Treccani.it è uscito un mio nuovo contributo. Il titolo è:  «...e tu pensi che un premier abbia il tempo di rispondere ai post?». La politica su Facebook

Il contributo fa parte di uno speciale interessante e articolato: Parola di leader. Strategie del linguaggio politico in Italia. All’interno, per esempio, Michele Cortelazzo si chiede se il politichese si è davvero rinnovato. Stefania Spina esamina la comunicazione politica su Twitter. E così via.

Il mio contributo affronta un tema piuttosto ampio. Il quadro d’assieme, però, si può riassumere in poche parole: i politici italiani usano Facebook per fare una comunicazione molto tradizionale, istituzionale, “da uno a molti” e priva di dialogo. Il che si contrappone sia alle potenzialità della rete, sia a ciò che in pratica avviene su Twitter. Su Twitter infatti diversi politici commentano e rispondono pubblicamente a molte osservazioni... come nel caso, ben noto, di Maurizio Gasparri. Certo, anche su Twitter i casi del genere sono piuttosto ridotti. Però esistono, mentre su Facebook no.

Anche le probabili ragioni della differenza sono semplici da individuare. Su Facebook c’è la gente: metà della popolazione italiana (!). E, soprattutto, c’è anche la ggente: gruppi consistenti di persone che, da semiprofessionisti, intervengono, commentano e insultano pubblicamente il politico a ogni messaggio.

Questo pubblico di affezionati insultatori non è un campione rappresentativo del Paese, naturalmente, però fornisce affascinante materia di indagini al linguista. Un po’ perché porta allo scoperto tutte le varietà dell’italiano, comprese quelle in passato difficili da documentare, come l’italiano popolare. E un po’ perché mostra, al di là di torti e ragioni, come in molte situazioni il semplice volume delle urla possa cancellare ogni tentazione di dialogo.
 

venerdì 23 gennaio 2015

Attività ICoN

 
Lunga vita al Consorzio interuniversitario ICoN!
Come dicevo la settimana scorsa, è un peccato non raccontare tutte le splendide cose che abbiamo fatto negli ultimi mesi al Consorzio interuniversitario ICoN!
 
Lavorando giorno per giorno a queste attività, siccome il lavoro è impegnativo al massimo, è facile perdersi nelle singole scadenze. Però ogni tanto mi fermo un attimo, mi guardo alle spalle e rimango impressionato anch’io da tutto quello che abbiamo fatto e da tutto quello che stiamo facendo. A me è capitato di farlo giusto ieri, al termine di una lezione introduttiva in presenza per il nostro Master in Traduzione specialistica inglese > italiano. Queste settimane poi sono particolarmente adatte a una riflessione, visto che sono ormai arrivato alla scadenza del mio mandato quadriennale (eh, sì, il tempo vola!) come Direttore del Consorzio.
 
Giusto per citare le novità più vistose del 2014… A ICoN abbiamo:
 
  • erogato corsi di lingua a distanza per quasi 700 studenti universitari brasiliani in arrivo in Italia con il programma Ciência sem Fronteiras
  • prodotto e iniziato a diffondere un corso online per l’esame “AP® Italian Language and Culture” negli Stati Uniti, in collaborazione con lo IACE 
  • organizzato un Seminario a Roma su “L’italiano come risorsa per il sistema Italia”, producendo anche gli Atti su carta e come e-book scaricabile gratuitamente
  • tenuto, in collaborazione con l’Ufficio Scolastico del Consolato d’Italia a Mendoza in Argentina, un corso di aggiornamento a distanza per i docenti della Federación de Entidades Cuyanas para la Instrucción y Cultura en Lengua Italiana (F.E.C.I.C.L.I)
 
Il tutto in aggiunta alla prosecuzione regolare di tante iniziative che hanno ormai molti anni di storia alle spalle: il Corso di Laurea in Lingua e cultura italiana per stranieri, i corsi di lingua per Trentini nel Mondo, tre Master, i corsi di lingua in autoapprendimento online…
 
Di ICoN ho già parlato in diverse occasioni su questo blog, ma in modo un po’ sparso. Approfitto di questo post per dichiarare la mia profonda soddisfazione nell’aver potuto contribuire per molti anni a una struttura che può vantare un programma stimolante e visionario e la collaborazione di tante persone eccezionalmente brave e competenti!
 

martedì 20 gennaio 2015

Fortis, Scrivere per il Web

 
Ho apprezzato molto il manuale di Daniele Fortis Scrivere per il Web. L’avevo ricevuto in copia omaggio dall’editore all’inizio del 2014, ma solo adesso sono riuscito a leggerlo – per fortuna, ne è valsa la pena!
 
Il libro ha un’impostazione molto in sintonia con le mie idee di didattica nel settore. Parte infatti dalle caratteristiche del mezzo-Web, descritte in modo molto simile a quello che ho trovato utile applicare per anni nei miei corsi. Passa poi già nel secondo capitolo a trattare di struttura del testo, enunciando principi classici (la piramide rovesciata), ma dedicando un ampio spazio a una delle mie più grandi passioni, cioè le liste, e arrivando fino alle tabelle. Il terzo capitolo è dedicato invece alla creazione di “link efficaci”.
 
Il grosso del testo, però, è occupato da due capitoli centrali, il quarto e il quinto, che sono dedicati rispettivamente a essere chiari e essere concisi, per un totale di quasi 100 pagine. Qui i criteri riguardano la scrittura in italiano, e sono molto estesi e dettagliati. Più di quanto si sia visto in qualunque altro manuale su questo argomento, mi sembra. Per esempio, un paragrafo sulla concisione lessicale si espande per 11 pagine prendendo in esame, con numerosi esempi:
  • Parole lunghe 
  • Parole “espanse”, con l’esame separato di 
  •   Sostantivi 
  •   Verbi 
  •   Aggettivi 
  •   Avverbi 
  •   Preposizioni e congiunzioni 
  • Coppie ridondanti 
  • Aggettivi e avverbi superflui 
  • Articoli superflui
Io a livello didattico ho sempre trovato più efficace indicare solo i principi di base e alcune tecniche campione (per esempio, eliminare la nominalizzazione), lasciando che fossero gli studenti a ricavarne tutte le conclusioni. Però è chiaro che un’esposizione di questo tipo può essere un ottimo punto di riferimento su cui tornare più volte, a distanza di tempo, per approfondire tecniche diverse.
 
Con il capitolo 6 il libro di Fortis si sposta poi su questioni generali di impaginazione, dalla scelta dei caratteri al ruolo delle immagini, mentre il settimo capitolo è dedicato a un argomento dal taglio molto pratico: scrivere per i motori di ricerca. Ovvero, scrivere (senza eccessi) in funzione di Google. Perché in fin dei conti la prima preoccupazione di chi scrive “deve essere redigere testi di qualità: informativi, di facile comprensione, rispondenti alle esigenze delle persone cui sono destinati” (p. 234).
 
Limiti del lavoro… se vogliamo trovarne, il più evidente è che la scrittura “per il web” ha qualche tratto unitario, ma più che altro si scompone in “scrittura per i diversi generi testuali che compongono il web” (natura che spero di aver dimostrato nel mio libro su L’italiano del web). Questo principio viene ogni tanto richiamato implicitamente nel libro, ma non è descritto in modo dettagliato; a livello pratico, l’unico esame sistematico di scrittura per un “genere testuale” è quello offerto dall’appendice 1 del libro, Scrivere una pagina di FAQ (pp. 235-242). Però è chiaro che questa è una scelta, e che il manuale nel suo assieme rappresenta un’ottima presentazione di criteri di scrittura per siti web di tipo “istituzionale”.
 
Daniele Fortis, Scrivere per il Web, Santarcangelo di Romagna, Apogeo Education e Maggioli Editore, 2013, pp. x + 261, € 19,50, ISBN 978-88-387-8988-5; ricevuto in omaggio dall’editore.
 

giovedì 15 gennaio 2015

I segni dei camuni


Iscrizioni rupestri della Valcamonica sotto la neve
I tempi lunghi mi interessano.
 
Mi interessa anche la continuità della cultura umana in questi tempi lunghi… fino al punto in cui la storia incomincia a diventare storia naturale, e oltre.
 
E ancora di più mi interessano i casi in cui la continuità è testimoniata dalla scrittura. Oppure da segni che sono alla base della scrittura stessa.
 
Nell’ultimo giorno del 2014 sono stato in Valcamonica per una gita di famiglia. Ne ho (abbiamo) approfittato per vedere il Parco nazionale delle Incisioni rupestri a Naquane in Valcamonica , che è una delle più importanti testimonianze italiane di una cultura distribuita su tempi veramente lunghi. I primi esempi di iscrizioni in Valcamonica risalgono forse addirittura al Paleolitico, e a epoche in cui i ghiacciai non si erano ancora del tutto ritirati dalla valle. Nel sito di Naquane non c’è nulla di così antico, a dire il vero, ma si parte comunque ancora dall’età della pietra, forse in collegamento con l’arrivo dell’agricoltura, e si prosegue. Per migliaia di anni, apparentemente.
 
Girando con guida tra le iscrizioni, in parte coperte dalla neve, gli esempi di affiancamento e sovrapposizione sono molti. Le incisioni hanno avuto a lungo significato rituale, ed è lasciato alla fantasia del vistatore immaginare la scena: processioni con fiaccole e corna di cervo che risalgono il pendìo, da una riva e dall’altra dell’Oglio. Sciamani e sacerdoti che, in privato o in pubblico, incidono le rocce e con il passare del tempo aggiungono alle immagini di cervi, capanne e scene di caccia una serie di scritte in alfabeto etrusco (che i camuni, come i reti, adottarono con un certo entusiasmo) e poi latino, con criteri che già avvicinano alle scritture esposte moderne e contemporanee. Oggi sulla pietra levigata dai ghiacciai le epoche si mescolano e immagini relativamente arcaiche compaiono accanto a quelle di guerrieri dell’età del Ferro e a parole scritte appunto in alfabeto etrusco, come questa:
 
Scritta in alfabeto etrusco e guerriero con un sole sul torace
 
Insomma, mentre il mondo attorno a loro cambiava, gli abitanti della Valcamonica hanno continuato per millenni a tornare su queste incisioni. Forse l’hanno addirittura fatto per tradizione diretta e consapevole. Una delle cose che mi hanno impressionato di più nella visita è stata una serie di sassi incisi, ospitata nel piccolo museo archeologico di Capo di Ponte. Secondo la ricostruzione presentata lì, i sassi facevano parte di un santuario abbandonato nel Neolitico e rimesso in funzione temporaneamente nel VI secolo d. C., dopo duemilaseicento anni di abbandono.
 
Certo, le incisioni in sé possono venire “riscoperte” molte volte, anche quando ogni ricordo della loro presenza e del loro significato si è perso, ma le tecniche per realizzarle sono relativamente complesse e forse non è facile reinventarle all’impronta. Se ho ben capito, in giro per la valle si trovano appunto iscrizioni più rozze, fatte a imitazione di quelle preistoriche ma senza ricordo delle antiche tecniche: dal Medioevo fino agli interventi più recenti che sconfinano nel vandalismo contemporaneo. Il che fa pensare che solo l’avvento del cristianesimo abbia portato a una vera discontinuità culturale, e forse anche linguistica... ma su questo mi piacerebbe leggere qualcosa di più.
 
Mi è comunque difficile immaginare che dietro alla continuità di tecniche non ce ne fosse una di cultura, e dietro alla continuità di cultura forse anche una continuità di popolazione. Del resto, se una volta si vedeva la storia antica d’Italia come un susseguirsi di invasioni di popoli misteriosi, oggi si è molto più propensi a ritenere che l’ultimo cambiamento drastico sul piano demografico sia stata la graduale diffusione dell’agricoltura. Cioè un processo che secondo molti (Renfrew, per esempio) in Europa e altrove si è sviluppato soprattutto attraverso la diffusione delle popolazioni di agricoltori, che avrebbero sommerso i cacciatori-raccoglitori già presenti sul territorio. Eppure, appunto, le iscrizioni della Valcamonica mostrano una continuità che parte ancor prima dell’agricoltura, e che suggerisce quindi un cambiamento non troppo drastico perfino all’inizio del Neolitico.

Uno sciamano
 
Oggi buona parte dell’informazione segnata in questo modo è peraltro irrecuperabile. Il senso di alcune iscrizioni è chiaro, ma altre sono piuttosto misteriose e della popolazione dell’antica Valcamonica si sa in genere ben poco. Le iscrizioni in alfabeto etrusco sono leggibili ma incomprensibili, e non permettono nemmeno di capire la lingua usata da quel popolo. Io punterei alla continuità e quindi a una lingua italica fin dai tempi più remoti, ma anche un etrusco remotissimo, villanoviano e oltre, non mi sembra da escludere. Materia di lavoro non poco interessante.

 

martedì 13 gennaio 2015

Anno nuovo, lavoro nuovo

 
A volte il cambiamento formale di calendario coincide con un cambiamento di sostanza. Stavolta è successo a me: dopo 12 anni da ricercatore universitario, qualche settimana fa sono stato chiamato come professore associato di Linguistica italiana presso il Dipartimento di Filologia, letteratura e linguistica dell’Università di Pisa e il 29 dicembre ho preso servizio nel mio nuovo ruolo.
 
Sono molto contento del passaggio, naturalmente, che arriva a pochi mesi dall’abilitazione ed è stato possibile attraverso il Piano Straordinario Associati del MIUR. Soprattutto, però, per raggiungere il traguardo sono stati indispensabili l’apprezzamento e il sostegno di tante persone: maestri, colleghi, amici e familiari. Senza dimenticare tutti gli studenti e i laureati di questi anni, che mi hanno insegnato molto più di quello che si potrebbe pensare.
 
Dopodiché, si ricomincia! Gli ultimi mesi del 2014 sono stati molto pesanti, dal punto di vista lavorativo. Il 2015 promette di essere ancora più impegnativo, anche viste le nuove responsabilità. E in generale, questo non è certo un momento facile per il mondo universitario… ma per me è arrivato il momento di chiudere diverse faccende in sospeso e ripartire con energia. Ed è arrivato il momento, tra l’altro, di dire qualcosa di più sul mio lavoro di ricerca e insegnamento, e sulle cose spettacolari che stiamo facendo al Consorzio interuniversitario ICoN. Prossimamente su questi schermi.
 
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