giovedì 6 novembre 2014

Sorpresa: in Italia si parla soprattutto italiano!

 
ISTAT
L’ultima indagine ISTAT su lingue e dialetti in Italia (dati 2012) mostra una novità importante, anche se non del tutto inaspettata. Per la prima volta, la maggioranza della popolazione italiana dichiara infatti di parlare “solo o prevalentemente italiano” in famiglia! Per anni questa percentuale era rimasta attorno al 43-44%, e ancora l’ultima indagine ISTAT (2006) mostrava questi valori; il resto della popolazione, cioè la maggioranza assoluta, usava invece “solo o prevalentemente dialetto”, “sia italiano sia dialetto” oppure “altra lingua”. La lingua nazionale ha fatto quindi un balzo di quasi il 10%: la crescita non era inaspettata, appunto, ma le sue dimensioni sono sorprendenti.
 
Sì, ma come mai una popolazione cambia lingua, abbandonando per esempio i dialetti e iniziando a parlare in italiano? Nel mio modello di mondo (e, spero, nella realtà) le lingue sono oggetti più statici di quel che di solito si pensa. Si trasmettono quasi immutate da una generazione all’altra, e si spostano non per misteriose “diffusioni” ma perché si spostano le persone, e le famiglie, che le parlano.
 
Alla base di questa staticità c’è un fatto biologico: per una persona, il modo migliore per imparare una lingua è impararla prima dell’ingresso nell’età adulta. Oltre questa constatazione di massima è difficile andare – visto che con gli esseri umani, per fortuna, non si possono fare esperimenti! Sembra per esempio che per alcuni aspetti della fonologia esista una vera e propria età critica, mentre gli altri piani della lingua possono essere dominati a livello madrelingua anche molto più avanti… però questo è un discorso molto complesso. Dal punto di vista pratico, per la diffusione di una lingua conta innanzitutto la lingua che le giovani generazioni parlano e sentono parlare nell’uso quotidiano. Questo, nella maggior parte dei casi, significa parlare la lingua usata dai genitori e da altri bambini di un gruppo omogeneo. Di qui la staticità.
 
Nelle società sviluppate, però, i bambini sono sottoposti oggi anche ad altri stimoli consistenti. Da un lato vanno di regola a scuola (entro i sette anni, al più tardi; ma spesso iniziando fin dai primi mesi di vita) e passano a scuola una buona parte del giorno. Inoltre sono continuamente esposti a mezzi di comunicazione parlati, a cominciare dalla televisione. Scuola e televisione, con poche eccezioni, comunicano attraverso una lingua nazionale, più o meno dominata.
 
Il combinato disposto di questi fattori fa sì che le lingue degli emigranti si perdano rapidamente nelle generazioni successive. Società extrafamiliare e mezzi di comunicazione agiscono già sui bambini. Conseguentemente, di solito, la seconda generazione è capace di intendere la lingua di partenza dei genitori ma non di parlarla con sicurezza; per la terza generazione, la stessa lingua è ormai lingua straniera. Questo è tra l’altro ciò che è successo regolarmente per le comunità italiane all’estero, con eccezioni nel caso di comunità di particolare compattezza, com’è accaduto al dialetto veneto conservato per più di un secolo a Chipilo in Messico.
 
Gli stessi fattori sono all’opera anche nella stessa Italia, a favore della lingua nazionale e a danno dei dialetti (e, ovviamente, delle lingue degli immigranti). Questo spiega buona parte della diffusione dell’italiano negli ultimi tre secoli, dal XIX al XXI. In alcune regioni (quelle del nordest e dell’estremo sud) molte comunità sono saldamente attaccate al dialetto; in altre, lo spazio del dialetto viene gradualmente eroso dalla lingua “esterna”. Negli ultimi vent’anni le percentuali complessive non erano cambiate molto. Adesso però l’indagine ISTAT mostra non solo un aumento generalizzato, ma anche un calo nelle differenze territoriali e in quelle sociali. Insomma, non solo è stata superata una soglia simbolica, ma alcuni movimenti sembrano testimoniare spinte nuove. Vedremo se le prossime indagini confermeranno!
 

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