lunedì 7 ottobre 2013

Diamond, Il mondo fino a ieri

 
 
Jared Diamond è l’autore di un importante libro sulla storia del mondo, Armi, acciaio e malattie. Il suo ultimo libro, che ho da poco ricevuto in graditissimo regalo nella recente traduzione italiana, si intitola Il mondo fino a ieri (Torino, Einaudi, 2013, pp. xiv + 504, ISBN 978-88-06-21452-4; titolo originale, The world until yesterday, 2012; traduzione di Anna Rusconi) e, come il precedente Collasso, contiene diverse cose interessanti ma non è altrettanto bello. Soprattutto, non è altrettanto significativo. Armi, acciaio e malattie presentava in modo intelligente e documentato un’idea ragionevole, definita e inedita sulla storia, sintetizzando con rara abilità dati provenienti da più campi disciplinari. Qui l’idea invece non c’è. A sostituirla, c’è una specie di spunto di discussione: “Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali?” (spoiler: non molto). Anche il livello dell’esposizione è stato poi molto abbassato, prendendo evidentemente come punto di riferimento un lettore statunitense e non molto istruito.
 
Beninteso, il libro è opera di una persona intelligente che non solo sa un sacco di cose, ma ha avuto diverse esperienze esotiche. Diamond ha trascorso lunghi periodi in Nuova Guinea, e ha una montagna di cose interessanti da raccontare in proposito. Una di queste è il suo quadretto iniziale con descrizione della folla nell’aeroporto di Port Moresby, che esibisce un rapporto recente ma del tutto disinvolto con la scrittura:
 
Nell’arco di un paio di generazioni, e della vita di molti dei presenti in quell’aeroporto, gli abitanti degli altipiani avevano imparato a scrivere, a usare il computer e ad andare in aereo. Forse alcuni di essi erano stati addirittura i primi della tribù ad alfabetizzarsi (p. 4)… Se a raccontarci com’è andata a finire non vi fosse la storia recente, forse saremmo qui a domandarci se è davvero possibile che una popolazione completamente digiuna di scrittura possa impadronirsene nell’arco di una sola generazione (p. 6).
 
Del resto, perché una società dovrebbe richiedere più di una generazione per far rientrare la scrittura (o una qualunque altra novità tecnologica) nelle proprie abitudini? Quanto tempo hanno impiegato le automobili o i cellulari per integrarsi nella cultura italiana? I singoli individui hanno i propri tempi e periodi di apprendimento, ma, appunto, nell’arco di una generazione viene assimilato tutto quel che c’era da assimilare.
 
Anche a prescindere dalle esperienze in Nuova Guinea, comunque, Diamond è ancora capace di sintetizzare con rara abilità dati disparati, da non-specialista che ha studiato le cose giuste e spesso riesce a dirle meglio degli specialisti. Per esempio, il capitolo decimo, di cui parlerò in dettaglio più avanti, è dedicato al plurilinguismo e condensa in due pagine (377-378, con qualche piccola svista) una delle migliori descrizioni del rapporto tra italiano e lingue romanze, e italiano e dialetti, che mi sia capitato di leggere di recente… anche se la mancanza di una bibliografia classica non mi permette di capire da dove siano state riprese le informazioni.
 
Il problema del libro è un altro: è che, appunto, lo spunto di discussione iniziale si ramifica in una serie di confronti a livello di capitolo, su argomenti ben poco collegati tra di loro. Tipo: come si gestiscono i conflitti nelle diverse società? Come si allevano i bambini? Come si trattano gli anziani? Come si gestiscono i pericoli? Come ci si prende cura della salute? Eccetera. E, ovviamente, su molti di questi punti le società tradizionali non possono fornire esempi a noi utili. Per esempio, abbandonare alla fame o agli animali della foresta gli anziani o i malati risolve in molti casi i problemi di gestione, ma la pratica, per quanto diffusa nelle società tradizionali, forse non va incoraggiata in quelle postindustriali…
 
Diamond alla fine qualche suggerimento lo ricava comunque: gestire i conflitti personali in modo meno burocratizzato, dare più indipendenza ai bambini, prestare maggiore attenzione alle lingue straniere. Inutile dire che i suggerimenti sono rivolti al pubblico americano, e che in due di questi casi, per esempio, la società italiana sembra molto più vicina di quella americana al modello tradizionale… senza che questo, temo, la renda migliore (la gestione dei bambini, d’altro canto, in Italia è oggi follia pura e sospetto che di questo stato di cose pagheremo a lungo le conseguenze nei prossimi decenni).
 
E il capitolo sulle lingue? Innanzitutto Diamond presenta in modo molto articolato e intelligente la situazione linguistica dell’Occidente e delle società tradizionali. Poi prende in esame due argomenti all’apparenza molto diversi: le conseguenze individuali della conoscenza di più lingue e la diffusione delle lingue minoritarie.
 
Per il primo argomento, il bilinguismo e il plurilinguismo sono molto diffusi in alcune società tradizionali, più di quanto non accada negli Stati Uniti. Diamond fa poi una sintesi di diversi studi recenti, che “non hanno dimostrato differenze cognitive generalizzate fra soggetti bilingui e monolingui” (p. 391), mentre i bilingui hanno ovviamente – come minimo – il vantaggio di conoscere più lingue. Qualche leggera differenza nello svolgimento di compiti d’altronde si manifesta, e alcuni studi mostrano, addirittura, che i bilingui sono più protetti dei monolingui nei confronti di malattie come l’Alzheimer.
 
Anche per la diffusione delle “lingue minoritarie” Diamond fa ricostruzioni su cui oggi c’è ampio accordo. Per esempio, considera a rischio tutte le lingue che non sono state adottate da uno stato-nazione: 192, o 70, a seconda del modo di calcolarle (p. 404). E poi pone una domanda: ha senso cercare di salvare le lingue minoritarie? Qui i due filoni accennati sopra si saldano, perché Diamond parte ricordando che, per quel che ne sappiamo, il bilinguismo non è un ostacolo allo sviluppo mentale, ma semmai un aiuto. Non è quindi necessario che tutta l’umanità parli la stessa lingua, perché l’esistenza di una lingua franca internazionale risolve i problemi di comunicazione senza produrre inconvenienti e, se è vero che le lingue possono anche essere un fattore di divisione, in realtà molte delle peggiori tragedie della storia recente si sono consumate all’interno di comunità che parlavano la stessa lingua.
 
Sì, ma perché fare un’azione positiva per salvare le lingue minoritarie? Diamond fornisce in proposito una serie di ragioni di varia solidità. Intanto, ripete l’argomentazione sull’aiuto del bilinguismo per lo sviluppo mentale e va bene. Poi si allarga parlando del bilinguismo come di un vero e proprio arricchimento della vita; e alla fine incomincia a esagerare (“Lingue diverse comportano poi vantaggi diversi, per esempio il fatto che certi concetti ed emozioni sono più facili da esprimere in una lingua che in un’altra”, p. 408), arrivando a tirar fuori perfino relitti come l’ipotesi Sapir-Whorf… Ritorna alla ragionevolezza spiegando che, poiché in una lingua “sono codificate una letteratura e una cultura, nonché un’enorme conoscenza”, perdere una lingua significa “perdere gran parte di quella letteratura, cultura e conoscenza”. Non solo una letteratura in traduzione è meno apprezzabile, ma esistono montagne di informazioni che non saranno mai “tradotte” usando metodi tradizionali – giusto per fare un esempio che mi ha toccato da vicino negli ultimi mesi, tutta la bibliografia di base sulla storia della stampa in Cina è in cinese, e rimarrebbe quindi inaccessibile nel caso (improbabile) di una perdita della lingua. Seguono considerazioni un po’ meno sensate, anzi, proprio strampalate, sul ruolo identitario delle lingue. Per esempio, Diamond si domanda se la Gran Bretagna si sarebbe opposta con vigore al nazismo nel 1940 se in tutta Europa l’unica lingua fosse stata il tedesco… Ehm… Che senso ha chiedersi una cosa del genere? O, meglio ancora, perché non capovolgere l’esempio e chiedersi se il nazismo avrebbe potuto anche solo esistere, se nel 1940 l’Europa fosse stata un continente in cui l’unica lingua fosse stata l’inglese?
 
Mi colpisce poi che in questa rassegna di argomenti a favore della conservazione delle lingue ne manchi uno specialistico, ma importante per i linguisti: la possibilità che alcune delle lingue oggi minacciate permettano di capire meglio la natura del linguaggio, visto che le lingue più diffuse rappresentano solo una piccola sezione della varietà linguistica umana. Ho già parlato per esempio di come Daniel Everett ritenga che il pirahã, lingua amazzonica usata da poco più di quattrocento individui, permetta di smentire alcune ipotesi oggi correnti sul linguaggio umano (che sia vero o no, è un altro discorso). Diamond peraltro conosce i lavori di Everett, e lo cita ripetutamente per altre questioni, ma lascia del tutto da parte le sue idee linguistiche.
 
Insomma, secondo me questo capitolo riproduce in piccolo i pregi e i difetti del libro: si affrontano troppi argomenti, e su alcuni di essi chiaramente l’autore non ha riflettuto a sufficienza.
 

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