giovedì 19 settembre 2013

Siamo sempre lì: tablet e didattica

 
Foto di Brad Flickinger - CC Licensed - http://www.flickr.com/photos/56155476@N08/
I tempi cambiano: non troppo tempo fa, le scuole italiane iniziavano a ottobre... E anche gli argomenti scolastici di cui si parla sui giornali sono un po’ cambiati. Per esempio, molte energie vengono dedicate alla questione dei libri di testo elettronici, o dei registri digitali.
 
Io ogni tanto parlo di questi argomenti anche qui sul blog, e soprattutto li devo seguire per necessità di studio. La ragione è ovvia: anche se le cifre coinvolte sono modeste rispetto per esempio al bilancio complessivo della scuola italiana, non sono affatto trascurabili; e, più radicalmente, le scelte in questo settore hanno una risonanza notevole, collegata a idee diffuse e luoghi comuni contrapposti.
 
Un articolo di Carlo Rotella uscito giusto una settimana fa sul New York Times Magazine, No child left untableted, racconta il modo in cui sta evolvendo questa situazione negli Stati Uniti, tra venditori che premono per i tablet e insegnanti che, spesso, resistono. Ovviamente da un articolo di giornale non ci si possono aspettare valutazioni affidabili, ma il quadro che ne viene fuori è interessante. Carlo Rotella ritiene infatti che il miglioramento della didattica passi dagli insegnanti, non dai tablet, e le sue osservazioni personali insistono spesso in questa direzione:
 
Despite all the research showing that the educational benefits of new technology depend on good teaching, it can be easier to find money for cool new gadgets than for teachers. The Los Angeles school district, for instance, cut costs in recent years by laying off thousands of teachers yet is now using bonds to finance the spending of $500 million on iPads. (…) One afternoon, we watched a half-dozen students from nearby schools eat chips and test games on Amplify tablets. The raptly tender way they touched, pinched and stroked the screens awoke in me an urge to yank the gadgets and junk food out of their hands and lead them to a library or a good climbing tree.
 
Il punto chiave, però, è che qui non si tratta di un pregiudizio: le ricerche in tema supportano davvero le idee di Rotella. Se per alcuni tipi di attività possono essere un sussidio interessante, per altri, come lo studio approfondito e l’assimilazione di molti tipi di informazioni articolate, i tablet sono infinitamente inferiori rispetto, per esempio, alla carta. Inoltre, non è affatto chiaro che impatto possa avere uno dei punti cardine della propaganda degli “innovatori”, cioè la personalizzazione automatica dell’insegnamento. Ma, in generale, nella retorica dell’informatizzazione i punti incerti e non dimostrati sono moltissimi, e centrali.
 
Per questo motivo, tutte le valutazioni approfondite che conosco consigliano come minimo la cautela. Senza contare il fatto che gli studenti stessi sembrano ben poco interessati a tutte queste promesse. Una sintesi delle ricerche recenti, realizzata da Christopher Jones e Binhui Shao alla Open University britannica, The Net generation and digital natives: implications for higher education, conclude drasticamente che per le università non solo “Students persistently report that they prefer moderate use of Information and Communication Technologies (ICT) in their courses” (p. 1), ma a livello più generale
 
There is no obvious or consistent demand from students for changes to pedagogy at university (e.g. demands for team and group working). (…) There is no evidence of a consistent demand from students for the provision of highly individualised or personal university services (p. 2).
 
Insomma, non è che sappiamo tutto, ma in queste circostanze è chiaro che l’onere della prova spetta agli innovatori. Una qualunque scuola superiore italiana in cui, al termine di cinque anni di sperimentazione (e di controllo delle variabili…), i voti di maturità schizzassero verso l’alto sarebbe una bella fonte di propaganda... ma nulla di simile è ancora mai comparso. In giro ci sono solo tante belle dichiarazioni.

Cosa ancora più sconfortante, perfino progetti ufficiali ben finanziati come, in Italia, quello “Scuola digitale”, partono dall’idea di “verificare come e quanto, attraverso l’utilizzo costante e diffuso delle tecnologie nella pratica didattica quotidiana, l’ambiente di apprendimento possa essere trasformato” (come si dice nella presentazione di uno dei rami dell’iniziativa, “Cl@assi 2.0”), e stop. Certo, per valutare bisogna prima provare. Ma l’idea di vedere, prima o poi, se tutte queste sperimentazioni producono davvero miglioramenti sembra quasi uscita dall’orizzonte del dibattito.
 

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