venerdì 24 febbraio 2012

La scrittura non standard nei fumetti italiani

 
Ho appena ricevuto il libro Die Sprache(n) der Comics, a cura di Daniela Pietrini (Martin Meidenbauer, München, 2012, ISBN 978-3-89975-280-9, pp. 216). Il volume raccoglie gli atti del Kolloquim omonimo, tenuto a Heidelberg il 16 e il 17 giugno 2009; all’interno c’è anche un saggio di Fabio Gadducci e mio dedicato a La scrittura non standard nei fumetti italiani (pp. 113-126). In quest’ultimo sono presentati i risultati di una panoramica a largo raggio su ciò che all’interno dei fumetti italiani si trova, appunto, sotto forma di scrittura non standard a livello dei suoi ingranaggi minimi. In sostanza, quindi, semplici modifiche nell’ortografia, nella punteggiatura e nella scrittura delle parole... con poche eccezioni, il fumetto italiano non si allontana molto dalle regole tradizionali.
 

Una parte del lavoro riassume i risultati di una ricerca sulle interiezioni fatta da Lucrezia Franceschi per la sua tesi di laurea: inventario che ho trovato molto utile, da cui si apprende per esempio che oggi nei fumetti Disney sembrano scomparse interiezioni un tempo comunissime come pfui o quack (p. 125). In generale, ci sembra che la tendenza del fumetto italiano sia senz’altro stata diretta negli ultimi anni alla riduzione dei tratti espressivi più caratteristici. Nella sintesi finale Fabio e io ci sbilanciamo anzi a dire che probabilmente “tutti i meccanismi espressivi presenti nel fumetto italiano contemporaneo ad ampia diffusione erano già presenti cinquant’anni fa” e “non esiste neanche un singolo meccanismo che sia presente nel fumetto serio e non in quello umoristico” (p. 125).
 

Il volume è multilingue (oltre a quelli in italiano, sono presenti contributi in tedesco e francese, più abstract in inglese per ogni testo), e ancora non l’ho letto per intero. Segnalo però i contributi in italiano di Sergio Brancato e Gino Frezza, e soprattutto quello di più diretto interesse linguistico, Dannate lingue del Paz! Osservazioni linguistiche sui fumetti di Andrea Pazienza di Fabio Rossi (pp. 127-146). Pare incredibile, ma nei quindici anni passati da un mio minimo contributo sulla lingua dei fumetti di Andrea Pazienza non era uscito nient’altro sul tema. Adesso Fabio Rossi colma una lacuna significativa facendo una rassegna a largo raggio – che tra l’altro ho subito usato per un breve testo di sintesi che dovrebbe comparire tra poco sulla rivista online Treccani.
 

martedì 21 febbraio 2012

Come parleranno i miei studenti, nel 2062?

 
Stamattina ho iniziato i miei corsi per il nuovo semestre di Informatica umanistica: il Laboratorio di scrittura (I anno) e Codifica di testi (III anno). Dal punto di vista lavorativo immagino che mi daranno il colpo di grazia, visto che già adesso devo dedicare tutto il fine settimana e buona parte delle serate semplicemente al tentativo di tenere la testa fuori dall’acqua... ma in compenso sono sempre interessanti e divertenti!
 

Stamattina per esempio ho iniziato a  “giustificare” agli studenti del Laboratorio di scrittura la necessità di tenere un corso sulla scrittura in lingua italiana. In fin dei conti, nel giro di qualche decennio non parleremo / scriveremo tutti in inglese? O cinese? O arabo, oppure swahili...?
 

Beh, ovviamente no. I motivi per cui non succederà niente di tutto questo sono molti e molto variati, ma la prima cosa da tenere presente è che gli esseri umani non cambiano facilmente il proprio linguaggio individuale. E siccome gli esseri umani “durano” oggi circa ottant’anni, in una data che ci appare oggi remota come il 2062 una buona parte della popolazione italiana sarà composta non solo dagli attuali bambini, ma anche da molti ventenni e trentenni di oggi (non da me, verosimilmente, ma così va il mondo). Tra cinquant’anni, anzi, i miei studenti saranno forse appena andati in pensione... o forse, visto l’andamento, saranno ancora in buona parte attivi nel mondo del lavoro. Nel frattempo, qualcuno di loro avrà imparato qualche altra lingua straniera, per necessità o piacere, e qualcun altro sarà andato a vivere all’estero, ma la maggior parte vivrà in Italia e avrà le stesse competenze linguistiche che ha oggi: italiano o dialetto come madrelingua, italiano come lingua per buona parte dell’interazione al di fuori della famiglia, inglese per alcune attività lavorative e sociali.
 

Come rincalzo per far passare l’idea ho usato un video, Future hipsters, pubblicato poche settimane fa per un’iniziativa chiamata Social media week e ambientato appunto nel 2062. Io lo trovo sinistramente plausibile: in fin dei conti, non si cambia poi molto, negli anni...
 

 

In aula, mi sembra che il prodotto sia stato apprezzato – e, tra l’altro, rimango sempre ammirato vedendo che agli studenti universitari italiani è oggi possibile presentare un filmato con dialoghi in inglese e vedere che buona parte di loro (anche se non certo il 100%) capisce e segue. Vent’anni fa era difficile. Trent’anni fa era molto difficile. Quarant’anni fa sospetto che fosse praticamente impossibile. Se anche si volesse imporre di punto in bianco una nuova lingua straniera nuova nelle scuole, al posto dell’inglese, la scala temporale necessaria per avere classi in grado di seguire un video nella nuova lingua sarebbe più o meno questa. I nazionalisti terrorizzati possono stare tranquilli, per tutto il resto della loro vita.
 

sabato 18 febbraio 2012

Sellen e Harper, The myth of the paperless office

 
Sellen e Harper, The myth of the paperless office
Sulla lettura da dispositivi elettronici si dicono tante cose, che però spesso sono basate più su speranze che sull’esame di fatti concreti. Un libro che viceversa si basa sull’esame di fatti concreti è diventato per me un punto di riferimento, nonostante sia passato molto tempo dalla sua uscita: The myth of the paperless office di Abigail J. Sellen e Richard H. R. Harper , pubblicato nel 2001 dalla MIT Press.
 
Il titolo, una volta tanto, promette meno di ciò che il testo mantiene. Il libro non si limita infatti a mostrare che l’ufficio senza carta è un mito, ma spiega anche, ragionevolmente, il perché. Gli autori iniziano il discorso con la descrizione della tipica scrivania contemporanea:
 
As we write this book, we have paper all around us. On the desk are stacks of articles, rough notes, outlines, and printed e-mail messages. On the wall are calendars, Post-it notes, and photographs. On the shelves are journals, books, and magazines. The filing cabinet and the wastebasket are also full of paper. Among all this sit our computers, on which the composition takes place. Yet, if the computer is the canvas on which documents are created, the top of the desk is the palette on which bits of paper are spread in preparation for the job of writing. Without these bits of paper ready to hand, it is as if the writing, and more especially the thinking, could not take place in earnest (loc. 38).
 
Seguono spiegazioni sulle affordances della carta, cioè in pratica le caratteristiche che permettono agli esseri umani di interagire con questo materiale. Gli autori indicano quattro ragioni principali per il successo duraturo della carta (loc. 894-899):
 
1. Paper helps us flexibly navigate through documents. 
2. Paper facilitates the cross-referencing of more than one document at a time. 
3. Paper allows us to annotate documents easily. 
4. Paper allows the interweaving of reading and writing.
 
E seguono, soprattutto, gli esempi pratici. Per esempio quelli ricavati da uno studio dei cosiddetti “knowledge workers” presso il Fondo Monetario Internazionale, i quali dispongono dei migliori computer e dei migliori servizi informatici esistenti, ma svolgono comunque buona parte del proprio lavoro su carta, per una varietà di ragioni (cap. 3, Paper in knowledge work). Particolarmente importanti mi sembrano i risultati di uno studio sul modo in cui viene condotta, in diversi ambiti, la lettura di lavoro – sia su carta, sia su schermo. Gli autori sintetizzano i risultati in otto paragrafi (loc. 957-1042):
 
1. The ubiquity of reading 
2. The preference for paper 
3. Many different kinds of reading 
4. Different ways of reading 
5. Reading in conjunction with writing 
6. Use of multiple documents 
7. The complex role of technology 
8. Clusters of readers
 
Ognuno di questi paragrafi meriterebbe una discussione approfondita. Per dare un’idea dei contenuti, basti però qui vedere il modo in cui gli autori introducono il paragrafi 5, presentando quello che definiscono giustamente come uno dei risultati più sorprendenti della loro ricerca: nel mondo del lavoro, “Reading occurs with writing more often than it occurs without” (loc. 973).
 
Gli autori poi esaminano il modo in cui carta e computer vengono usati in una varietà di situazioni: dai poliziotti, dai controllori di traffico aereo, e via dicendo. Una delle sezioni più interessanti del libro, per me, è quella centrale, in cui tra l’altro si studia il modo in cui diverse aziende hanno tentato di far passare dalla carta al computer diverse fasi di lavoro. Le conclusioni potranno sembrare controintuitive a molti lettori: i sistemi elettronici vanno bene per archiviare le informazioni, la carta per lavorare sulle informazioni. Quindi il consiglio base è: archiviare su computer, stampare su carta quando si lavora, e a lavoro finito buttare via tutto tranne le pochissime cose che devono essere archiviate di nuovo su computer.
 
Il libro comunque è affascinante (beh, per gli addetti ai lavori) in pratica a ogni pagina... Leggendolo su Kindle ho provato a usare la funzione che permette di fare un’orecchia alle pagine più interessanti... ma ho scoperto che le marcavo quasi tutte! Impossibile quindi dare un riassunto dettagliato dei contenuti. L’unica è leggerselo per intero.
 
Infine, va notato che negli undici anni trascorsi dall’uscita di questo libro la tecnologia ha cambiato un po’ di cose, ma non ha trasformato il quadro. I dispositivi elettronici sono diventati più potenti, più intelligenti, più facili da trasportare... ma ancora non hanno, per esempio, sistemi che permettano di sfogliare i capitoli di un testo con la stessa immediatezza che è possibile su carta. Più che cancellare l’utilità della carta ne hanno insomma rosicchiato gli ambiti d’uso, occupandone uno qua e uno là. Né sono in vista innovazioni tali da far pensare che la scomparsa completa della carta nel lavoro di ufficio (e dintorni) sia vicina.
 

martedì 14 febbraio 2012

Circolare, circolare!

 
La settimana scorsa, una circolare del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca (la n. 18, del 9 febbraio 2012) ha ribadito qualcosa che la legge già prevedeva, come nelle classiche grida manzoniane. I giornali, con la mancanza di memoria che li caratterizza in modo così sorprendente, si sono affrettati a rilanciare la notizia.
 
Ma di che cosa si parla, nello specifico? La circolare prevede che i libri di testo adottati nelle scuole italiane a partire dal 2012-2013 “debbono” (in perfetto burocratese: perché non “devono”?) essere “redatti in forma mista (parte cartacea e parte in formato digitale) ovvero debbono essere interamente scaricabili da internet”. Il burocratese è il modo in cui si esprime chi non conosce molto le cose o chi non è capace di comunicarle, e anche qui se ne ha conferma: che cosa vuol dire che i testi devono essere “redatti”? No, chiaramente Carmela Palumbo, direttore generale del ministero e firmataria della circolare (o chi per lei ha “redatto” la circolare) intendeva dire “disponibili” o “presentati”, e non ha fatto controllo sul vocabolario. Pazienza.
 
Al di là dei problemi a comunicare in italiano, però, la circolare lascia del tutto inalterato il panorama. Ad esterminio dei libri su carta si ribadiscono le cose già dette nell’articolo 15 della legge 133/2008, di cui ho già parlato, e nella circolare ministeriale n. 16 del 10 febbraio 2009. Né la legge né la circolare offrono giustificazioni per questa scelta – c’è del resto abbondante bibliografia che mostra come in molti casi gli studenti trovino i libri di testo elettronici molto più difficili da usare rispetto ai testi su carta, anche se appunto la situazione va valutata caso per caso.
 
Come si pensa inoltre di usare questi libri elettronici? In quale forma? Non essendoci indicazioni sul formato in cui saranno “redatti”, pardon, presentati i libri, è impossibile per esempio capire quale tipo di hardware sarà necessario per sfruttarli. Sono iBooks? Bene, quanti studenti hanno a propria disposizione esclusiva un iPad? Uno su cinquanta? O forse saranno in formato Kindle? O Mobi? Oppure EPUB? Eccetera. Le domande che sorgono spontanee a chiunque intenda mettere in pratica le disposizioni di legge non sono nemmeno sfiorate. Per un’idea delle implicazioni, consiglio la lettura di un bell’articolo recente di Cyrus Farivar.
 
Dal punto di vista economico, è probabile che tutta l’iniziativa si traduca in un adempimento in pura perdita per le case editrici – che nel più semplice dei casi metteranno forse in linea i PDF dei testi, ammesso che qualcuno controlli il rispetto della condizione, in altri potrebbero trovarsi a creare complicati sistemi di gestione degli scaricamenti, password, eccetera. Lo stato attuale dell’editoria è d’altra parte tale che quasi tutti possano creare al volo almeno i PDF di qualcosa – al punto che uno dei punti chiave di un altro progetto problematico, la valutazione dei prodotti della ricerca delle università italiane nel 2004-2010, prevede che i ricercatori italiani inviino ai valutatori i PDF di tutto ciò che hanno pubblicato (aiutati in parte da una convenzione con gli editori), creando una biblioteca digitale senza eguali e destinata a essere distrutta al termine dell’esercizio.
 
Gli ottimisti potranno sperare che le disposizioni sui libri di testo abbiano qualche marginale utilità per il mercato dei libri elettronici. Io mi chiedo se per esempio le “università telematiche” abbiano favorito lo sviluppo di serie iniziative per la formazione a distanza in Italia, o se lo abbiano danneggiato. Propendo decisamente per la seconda ipotesi, e penso, per analogia, che questa cultura che fa corrispondere l’editoria elettronica a una serie di adempimenti insensati produrrà, alla lunga, più danni che vantaggi. Da addetto ai lavori, di sicuro non saluto con gioia queste disposizioni.
 

giovedì 9 febbraio 2012

Computer e motivazione allo studio: regole 1 e 2

 
Le ondate di entusiasmo nei confronti degli strumenti multimediali per la scuola mi sembrano sorprendentemente acritiche. Nei comunicati stampa, un sacco di gente dichiara di aver trovato “la” soluzione; ben pochi, però, ricordano le tante altre soluzioni tecnologiche che sono state proposte come “la” soluzione, e che sono rapidamente passate nell’oblio. Adesso c’è l’entusiasmo per tablet e iPad; in passato avevamo l’entusiasmo per Internet, e prima ancora quello per i computer, e prima ancora quello per i lucidi, le diapositive, le fotocopie, il ciclostile, la televisione, il cinema, il torchio tipografico in classe, eccetera...
 
Le novità tecnologiche hanno questo di bello: che, come le diete miracolose, all’inizio funzionano! Le prime classi che sperimentano un sistema ricevono attenzione, finanziamenti e apparecchi e scintillanti. Di regola si riesce anche a riscontrare un miglioramento rispetto alle tecniche “tradizionali”. Poi, passato il tempo, allargata l’esperienza, l’entusiasmo si affievolisce e alla fine ci si riadagia su qualcosa che assomiglia molto a ciò che esisteva prima.
 
In queste condizioni non è facile fare valutazioni oggettive. In Italia il sistema scolastico pubblico ha in corso un pacchetto di sperimentazioni sulle applicazioni didattiche dell’informatica: Scuola digitale. Tuttavia è molto difficile trovare spiegazioni chiare e articolate di ciò che si è imparato da queste sperimentazioni, e da quelle precedenti. A me farebbe molto piacere avere per esempio una sintesi in forma di libro che presenti in modo chiaro e articolato lo stato delle cose, soprattutto per l’insegnamento della lingua e della grammatica. Però non esiste nulla del genere, che io sappia, mentre sono molto diffusi i libri dedicati alle “potenzialità” dell’innovazione. È molto più facile e meno controverso, in fin dei conti, dire le cose che sarebbe bello succedessero, piuttosto che vedere ciò che in effetti succede, anche se ormai sono più di quarant’anni che si conducono intense sperimentazioni sull’uso didattico dei sistemi informatici.
 
Tuttavia una sintesi è necessaria: io lavoro in un ambiente ad alta densità di computer, tra studenti completamente connessi in rete, e ogni anno a ogni nuovo corso devo cercare di capire quale sia la strada migliore per raggiungere i miei obiettivi. Provo quindi a proporre, artigianalmente e un po’ impressionisticamente, ciò che mi sembra di aver imparato in questi anni dalla mia esperienza personale e dallo studio di esperienze precedenti, iniziando da due regole e un postulato quasi superfluo.
 
Regola uno: diffidare delle lune di miele
 
Ogni innovazione viene annunciata come un miracoloso passo avanti. Si introduce un programmino e subito il Ministero o l’Università fanno un comunicato stampa, si dichiara che il programma “è stato scaricato 12.345 volte nell’arco di un mese”, si vanta l’aver raggiunto in questo modo studenti che prima non si interessavano all’argomento, eccetera. Non mi pare però che questa serie regolare di successi annunciati si traduca con altrettanta regolarità in risultati concreti e duraturi. Per questo motivo, ogni dichiarazione sull’utilità di una specifica innovazione dovrebbe essere secondo me accolta con scetticismo, fino a prova contraria (cioè, qualche anno di applicazione di routine).
 
Regola due: lo studio non sarà mai “divertente” tanto quanto il gioco
 
Ogni tanto, nella discussione, sembra che sia possibile rendere tutti gli argomenti di studio ugualmente interessanti, intervenendo solo sul modo in cui sono presentati. L’apice di questo atteggiamento si è forse avuto con il terzultimo presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, che tra i quattro pilastri della sua Educational Technology Initiative (1996) inseriva questo come n° 3:
 
Educational software will be an integral part of the curriculum -- and as engaging as the best video game.
 
Ora, il motivo per cui nell’istruzione i giochini (ma anche le caramelle, o i premi in denaro) servono relativamente a poco è intuitivo: di regola, soddisfazioni simili non sono molto interessanti, oppure possono essere ottenute con meno sforzo in altro modo. Quindi, esattamente come nelle lezioni di matematica-con-spogliarello cui assiste la professoressa marziana, anche il più interessante dei giochini superficiali dopo un po’ stanca. Un videogioco è una cosa pensata per intrattenere, ed è difficile pensare che si possa raggiungere lo stesso coinvolgimento con un prodotto che all’intrattenimento deve aggiungere un obiettivo formativo.
 
Certo, nei giochi per bambini di cinque anni si possono mettere lettere dell’alfabeto all’interno di fiorellini, e così via. Ma è difficile credere che un programma per lo studio di funzioni possa essere equivalente a uno sparatutto. Gli esseri umani sembrano in grado di entusiasmarsi sia per gli studi di funzioni sia per gli sparatutto, ma il secondo genere di entusiasmo sembra assai più comune. Forse si può combinare lo studio di funzioni con uno sparatutto... ma è molto probabile che il prodotto risultante produca un apprendimento tanto lento da essere improponibile a scopi pratici.
 
Questo non vuol dire che non si possano trovare modi più intelligenti e coinvolgenti per insegnare (anzi, su questo c’è molto lavoro da fare). Vuol dire però che è inutile sperare che un programma sia in grado di insegnare cose complesse “divertendo” tanto quanto uno sparatutto.
 
Postulato quasi superfluo: la motivazione estrinseca può agire solo se esiste
 
Il postulato è lapalissiano ma, incredibilmente, spesso dimenticato. Nel mondo reale spesso le ricompense dell’istruzione, o della formazione, o non sono affatto evidenti allo studente, o non esistono proprio – o, se esistono, hanno un peso più basso di quello che si attribusce loro. Io mi sono fatto l’idea (e non sono isolato in questo) che una causa importante della stagnazione formativa dei paesi sviluppati negli ultimi decenni sia la scarsa utilità competitiva della formazione. Se i laureati guadagnano in media poco meno dei diplomati, o se la punizione per l’insuccesso formativo non è molto alta, gli studenti hanno meno motivazione estrinseca per studiare. E un atteggiamento del genere è perfettamente razionale da un punto di vista, diciamo così, economico.
 
 

martedì 7 febbraio 2012

Meyers, Breaking the page

 
Peter Meyers ha reso disponibile pochi giorni fa la “preview edition” di un libro dal titolo accattivante: Breaking the page: Transforming books and the reading experience. Sul sito di O’Reilly questa “preview edition” è gratis, ma per evitare tutto il fastidio della registrazione e del trasferimento manuale del file su Kindle mi sono ritrovato a spendere 80 centesimi e a scaricare il libro da Amazon. Avrei fatto meglio a risparmiare i soldi e a procurarmi il libretto in una versione ePub senza DRM, leggibile in libertà su vari supporti? Senz’altro... Ma il tempo stringeva, e la scelta era tra Amazon e rinviare la lettura a chissà quando.
 
Per quanto riguarda i contenuti, Meyers parte con il piede giusto. Nell’introduzione racconta da un lato il suo entusiasmo davanti alle possibilità del libro elettronico: “In those magical, movable pixels, I thought, had to be the makings of a future book...” (loc. 69). E dall’altro, la sua preoccupazione davanti al fatto che i libri elettronici in realtà sono da molti punti di vista peggiori di quelli su carta:
 
They had attention-breaking conversion “artifacts” (typos, odd line breaks, weirdly limited fonts). I couldn’t easily do simple things – flip between different spots in a book, check the index – that made me a more nimble, more satisfied reader. [Mentre gli esperimenti di interattività] looked like the results of an engineer run amok in the English department: videos wedged into and around prose, the two alternately ignoring each other and vying for the viewer’s attention; text puddling onto the screen’s edge as you tilted your e-reader this way or that; and links, links, links galore. Wikipedia became a kind of safety net for writers not inclined to fully explain the topic at hand (loc. 69-81).
 
In reazione a questo panorama, Meyers racconta di aver buttato giù, alla buona, un po’ di idee astratte per “migliorare” i libri elettronici. Alcune di queste idee, descritte per esempio alle loc. 102-112, lasciano piuttosto perplessi (“Play-by-play dramas”), altre sembrano utili ma non nel modo immaginato dall’autore (“The birds-eye view of a book”), altre utili ma marginali (“Change-tracking for readers”). Eccetera.
 
In ogni caso, nel primo capitolo del libro Meyers esamina diversi modi cui gli indici tradizionali potrebbero essere sostituiti e migliorati. La galleria è affascinante, anche se in molti casi i tentativi rimangono poco più che abbozzi, e qualche punto di riferimento sembra già consolidato: mi rincuora trovare in questa lista alcuni dei prodotti che ho presentato per esempio nel mio corso del 2011 sulle Interfacce di lettura e scrittura, come The elements (scarso) e Our choice (niente male, e diretto ispiratore, direi, di molte delle cose che ora si trovano negli iBooks Apple).
 
Qualche nota più di dettaglio:
 
  • sono molto interessanti i tentativi di fare “indici” migliorati e di ridurre l’inferiorità del libro elettronico dal punto di vista dell’esplorazione casuale sostituire “Start screen” a indici veri e propri mi sembra una soluzione vantaggiosa solo in alcuni casi – anche se gli esempi forniti da Meyers fanno pensare che, quando funziona, sia un’ottima scelta
  • l’uso di “gallerie” mi sembra anch’esso interessante per prodotti ben definiti, ma in generale incapace di presentare raccolte con un minimo di estensione
  • Le “timeline” sono probabilmente di uso più limitato rispetto a ciò che Meyers ipotizza
 
Il secondo capitolo è dedicato alla “ricerca” all’interno del testo. Meyers qui presenta molte proposte originali di miglioramento: nella maggior parte dei casi la portata dell’innovazione mi sembra limitata, ma non c’è dubbio che l’assieme potrebbe essere molto utile.
 
Infine, il terzo e ultimo capitolo è dedicato ai modi per navigare all’interno del libro. Molti elogi sono dedicati ai prodotti per iPad della casa editrice Inkling: mi sono scaricato subito la loro app e ho fatto un po’ di prove con il materiale gratuito messo a disposizione. Il risultato non promette male... ma i libri completi (quelli cioè per cui è utile disporre di sistemi sofisticati di navigazione) hanno costi tali da scoraggiare un esame sistematico.
 
Qualche parere personale, alla fine di questa rassegna: mi sembra probabile che i “miglioramenti” futuri nei libri elettronici saranno a macchie di leopardo, e faranno balzare agli occhi le differenze concettuali che i libri su carta, tutto sommato piuttosto simili tra loro, oggi non mettono troppo in evidenza. I romanzi rimarranno tali; la saggistica umanistica, pure; le guide pratiche, dal turismo alla cucina, saranno rivoluzionate; i manuali per la scuola e l’università si presenteranno in forme estremamente differenziate a seconda della materia. Insomma, non avremo “il” libro del futuro, ma diversi formati per “i” libri del futuro.
 
Il meccanismo in sé non è nuovo: mezzo millennio fa, i libri a stampa hanno impiegato grosso modo un secolo per prendere l’assetto moderno in molti dettagli, dai titoli correnti ai numeri di pagina e agli indici. Per compiere questo passaggio sono stati necessari innumerevoli tentativi ed errori – e oggi ci troviamo a ripetere una parte di questa storia. Meyers si chiede in una nota (loc. ) chi sia stato l’inventore della “Table of content”; a questa domanda non c’è una risposta definita, perché gli indici sono stati “inventati” gradualmente nei secoli, ma non c’è dubbio sul fatto che il singolo individuo che più ha influenzato questo processo sia stato Aldo Manuzio. Immagino che nel frattempo qualcuno gliel’abbia già detto, ma credo che scriverò comunque a Meyers, per sicurezza.

 

venerdì 3 febbraio 2012

Stampatello e corsivo su tablet PC

 
A inizio settimana Mediaworld ha messo in vendita sul proprio sito i tablet PC HP Touchsmart tm2-2101sl. Io ne ho comprato uno al volo, combinato con un pacchetto software che include anche OneNote: mi pentirò della spesa, ma era l’unico sistema, credo, per avere un tablet PC con funzioni di inchiostro digitale da provare con tutta calma, usare per qualche dimostrazione d’aula – e sbatacchiare un po’ in giro, in condizioni reali.
 
Ora, dopo qualche giorno di pratica, posso fornire un paio di opinioni un minimo motivate. Usare la macchina mi ha dato diverse sorprese, sia in positivo sia in negativo.
 
Per quelle in negativo, va detto preliminarmente che il tablet PC che ho comprato è un modello di fascia bassa, anzi, è di gran lunga il più economico in vendita adesso in Italia. Può darsi che una parte dei problemi che ho riscontrato si riduca con i meccanismi di fascia alta, ma una parte sicuramente non sparirà... E in particolare, non sparirà il problema maggiore, cioè Windows 7.
 
I tablet PC hanno, quasi per definizione, sistema operativo Windows: né Linux nelle varie forme né Mac né Android né altri sistemi minori hanno la capacità di gestire la scrittura a penna che fa parte integrante delle versioni più recenti di Windows. Capacità che, come dirò meglio tra un attimo, ha raggiunto per alcune funzioni un livello sorprendentemente elevato. Ciò non toglie che il problema maggiore di un apparecchio di questo genere sia... Windows. Mettersi a cercare di lavorare seriamente su una macchina del genere venendo da un Ubuntu recente o da iOS è quasi uno choc. I pezzi del software sembrano messi assieme a casaccio, funzionano con lentezza estrema e si piantano senza ragione. Io uso (= devo usare) sistemi Windows da vent’anni, avendo brevemente iniziato, se ben ricordo, con il 3.0, prima di passare al 3.1 appena uscì, e dovendo usare ancora oggi Vista in dual boot sul mio computer. In vent’anni di cambiamenti, la qualità della mia esperienza utente con Windows è rimasta quasi costante, e anche questo apparecchio non fa eccezione.
 
Il software peraltro non è l’unico problema del Touchsmart tm2-2101sl. Beh, a ben pensarci, perfino il nome potrebbe essere un filino più accattivante... ma andando sul concreto, la macchina è molto pesante per le sue dimensioni e lo schermo non solo ha un angolo di visibilità molto ridotto, ma riflette tantissimo la luce, rendendo difficile lavorare perfino in interni, se c’è una lampada nelle vicinanze. Un tablet PC, del resto, è un normale portatile con qualche funzione aggiuntiva, e non sorprende quindi che sia meno maneggevole ed economico di un computer tradizionale con schermo di pari dimensioni. Dopodiché, si gira lo schermo, lo si ripiega sulla tastiera, si tira fuori lo stilo e – sorpresa! Il riconoscimento della scrittura a mano è molto, molto migliore di quello che mi aspettavo. Innanzitutto, non richiede una fase di addestramento, come usava una volta, e non occorre quindi fornire un campione della propria calligrafia: il riconoscimento è immediato, al primo avvio. Seconda cosa, ancora più incredibile: il sistema legge non solo lo stampatello, ma anche il corsivo. Pure questo senza fasi di addestramento, e con risultati più che decorosi. Per esempio, questo è un campione di testo in stampatello minuscolo scritto all’interno di OneNote (eliminare l’icona del touchpad si è rivelato stranamente difficile):

 E questo è il modo in cui è stato decifrato ed esportato in Word:

Ispirata alle teorie che più radicalmente hanno
innovato Lo studio della lingua, in primo luogo la grammatica generativa (ma anche la pragmatica e la sociolinguistica), la "Grande grammatica"
ira a una descrizione delle strutture dell'ita
piano nella forma più piana e semplice...

In quanto al corsivo, ecco l’esempio:
 Ed ecco i risultati della decifrazione:

zona di riconoscimento del corsivo
spirata alle teorie che più radicalmente
hanno innovato lo studio della lingua, in
primo luogo la grammatica generativa..."

Il mio corsivo non è certo elegante o regolare, ma è stato decifrato in modo soddisfacente ai primi tentativi e con un numero accettabile di errori, con l’unico limite del mancato riconoscimento delle lettere maiuscole – ho fatto diverse prove, ma non ne è stata identificata neanche una. Per aggirare il problema si possono usare nel testo corsivo le maiuscole dello stampatello; mi chiedo però a che cosa sia dovuto questa differenza.
 
In generale, inoltre, scrivere sullo schermo si è rivelato stranamente semplice, una volta presa confidenza con i comandi di OneNote (qualcuno avrà mai definito le interfacce di Windows come “intuitive”?). Lo schermo del Touchsmart tm2-2101sl risponde sia allo stilo sia alle dita in modo molto sofisticato, e per esempio permette di posare tranquillamente il polso sul vetro mentre si scrive. L’“inchiostro digitale” lascia subito il segno sullo schermo, e l’impressione di usare una vera penna è molto forte. Almeno nelle prove che ho fatto finora, i caratteri devono essere piuttosto grandi per essere leggibili – ma la qualità del tracciamento è infinitamente superiore rispetto a quella di dispositivi come l’iPad, dotati di un semplice digitalizzatore passivo. Tracciare testo e immagini a mano libera, andando poi a fare ricerche tra gli appunti, è quindi una possibilità concreta.
 
I tablet PC oggi rappresentano un mercato di nicchia. Che all’interno di questa nicchia si sia evoluta una tecnologia tanto matura (anche se non priva di limiti) fa venire spontanea una domanda: come potrebbe essere, per esempio, un tablet PC con schermo da 15 pollici, realizzato secondo le stesse specifiche di un ultrabook e un livello di cura per il software simile a quello mostrato da diversi prodotti Apple? Non credo che verrebbe usato solo per guardare il Corriere on line o per giocare ad Angry birds.
 

mercoledì 1 febbraio 2012

La professoressa marziana

 

Ogni tanto il fondo del mare si smuove e riporta alla luce qualcosa di strano. Stavolta è toccato a un remoto racconto di fantascienza di Lloyd Biggle jr., 1923-2002, scrittore ben poco noto in Italia, a parte forse il suo romanzo sul teletrasporto, Tutti i colori del buio. John Clute dice che “his stories do often convey the sense of an unrealized greater potential”; Don D’Ammassa dice che “an undeveloped talent” viene fatto supporre da alcuni dei suoi racconti, e in particolare da “And madly teach” (1966).
 
Questo appunto è il racconto che ho recuperato sugli scaffali del garage durante una ripulitura. In italiano è stato pubblicato due volte nella traduzione realizzata nel 1968 da Bianca Russo con il titolo La professoressa marziana. L’edizione più recente è quella in un’antologia di racconti di fantascienza centrati sulla scuola, Il compito di latino, curata da Vincenzo Campo per Sellerio nel 1999 (all’interno di questa antologia c’è anche il mio racconto preferito di fantascienza scolastica, Primary education of the Camiroi, di quel genio che era Raphael Aloysius Lafferty); la più remota è quella che ho io, nel n. 493 di Urania, fatto dall’antologia originale La prova del nove... un miscuglio di racconti che Fruttero & Lucentini misero assieme in base a chissà quali criteri. In rete si trovano poi varie riproposizioni della traduzione italiana, che rendono ancora più facile la reperibilità.
 
Al racconto di Biggle Urania dedicò comunque la copertina: un Karel Thole assai tipico, che illustra una delle scene chiave della storia. Un po’ liberamente, visto che la lezione raccontata è in realtà di “inglese” (che in italiano diventa, beh, italiano...), e non di matematica, come quella rappresentata in copertina:
 
– Vediamo un po’ la lezione di Marjorie McMillan delle due. Insegna inglese al quinto anno e ha un Trendex molto alto, 64. Vediamo come se la cava. – Il giovanotto premette i vari tasti.
Alle due in punto, Marjorie McMillan comparve sul video, e la prima impressione dell’inorridita signorina Boltz fu che la professoressa McMillan stesse spogliandosi. Scarpe e calze, infatti, erano posate in bell’ordine, sul pavimento, vicino a lei. L’insegnate in quel momento stava sbottonandosi la camicetta. Alzò gli occhi verso la telecamera.
– Che cosa state a curiosare qui, cari? – tubò. – Credevo di essere sola.
La signorina McMillan era una bionda attraente, che vista di profilo mostrava una serie di curve sensazionali. La bionda sorrise, scrollò la testa , e fece il gesto di ritirarsi.
– Be’, visto che siamo tra amici... - disse poi.
La camicetta sparì, subito seguita dalla gonna, e l’insegnante rimase davanti allo schermo in un provocante due pezzi. La telecamera sottolineò l’oro e il rosso della sua figura mentre la signorina McMillan veniva avanti con passo di danza. Mentre passava, sempre con passo danzante, accanto alla cattedra, premette il tasto che inquadrava la lavagna.
– Ora, carissimi, è tempo di metterci al lavoro – disse. – Eccovi la prima frase. – Lesse a voce alta mentre scriveva alla lavagna: – L’uomo... percorreva... la strada... Percorreva, indica l’azione dell’uomo, la strada è il complemento oggetto. Che definizione buffa, vero? Mi seguite?
La signorina Boltz tentò una protesta: – Inglese per il quinto anno?
– Ieri abbiamo parlato del verbo – diceva la signorina McMillan. – Ve ne ricordate? Scommetto che non mi avete seguito, anzi scommetto che anche adesso non siete affatto attenti.
La signorina Boltz fu sopraffatta dallo sdegno. Sullo schermo, la signorina McMillan aveva slacciato il reggiseno, ma nell’attimo in cui l’indumento stava per cadere, lei lo bloccò appena in tempo. – Forse, un giorno o l’altro, me lo toglierò davvero. Non vorrete perdere quel momento, vero? Meglio che mi seguiate con attenzione. E adesso torniamo a occuparci di quel brutto complemento oggetto.
La signorina Boltz osservò, con calma: – Mi sembra che vada un po’ fuori argomento.
Stewart spense il televisore. – Il suo Trendex non rimarrà alto per molto tempo – disse. – Appena gli allievi si accorgeranno che non ha la minima intenzione di sfilarsi il reggiseno... Passiamo a quest’altro. Quarto anno di inglese. Stavolta è un professore. Trendex 45.
L’insegnante era un giovanotto di bella presenza, dall’aria sveglia, che si esibì in una serie di imitazioni, e tenne il gesso in equilibrio sul naso. Successivamente passò alla lettura dell’opera “Gualdrappe e pistole” che lesse molto bene, sostenendo successivamente le varie parti, curvandosi dietro la cattedra, fingendo di puntare una pistola immaginaria contro la telecamera, e dando vita a un’interpretazione efficace.
– Ai ragazzi piacerà – disse Stewart. – Può resistere abbastanza bene. E ora vediamo se c’è qualcun altro.
C’era un’insegnante di storia, una donna giovane, dall’aria tranquilla, dotata di notevole talento artistico. Questa insegnante schizzava con rapidità straordinaria caricature su caricature, e teneva desta l’attenzione degli spettatori con una conversazione brillantissima. Successivamente passarono all’ora d’economia, dove l’insegnante faceva continui giochi di prestigio, e infine osservarono due professoresse che si servivano più o meno degli stessi mezzi della signorina McMillan, ma erano scarsamente dotate, e, di conseguenza, il loro Trendex era considerevolmente più basso (pp. 22-23).
 
Va tenuto presente che nella traduzione si parla di classi “quarte” o “quinte”, ma che gli studenti corrispondenti sono ovviamente quindici-sedicenni... il testo originale del racconto, leggibile in un’edizione del 1976 attraverso Google Books, parla infatti di “decima” o “undicesima classe”: la traduttrice probabilmente ha fatto un’equivalenza con il sistema italiano, ricominciando il conto dopo le prime cinque classi della scuole elementare, ma non ha inserito alcun chiarimento e i numeri spesso non sono tradotti neanche secondo questo criterio. A ogni buon conto, la lezione d’inglese in originale (classe undicesima... cioè, da noi, terzo anno di scuola superiore) faceva così: “This is called a sentence (…) The-man-ran-down-the-street. ‘Ran down the street’ is what the man did. We call that the predicate. Funny word, isn’t it?” (p. 11).
 
La professoressa Boltz in effetti scopre rapidamente, al suo rientro, che sulla Terra ormai l’approccio didattico è quello della Scuola nuova, la quale si basa sull’insegnamento a distanza, attraverso la televisione, e:
 
segue questi principi: l’allievo deve essere esposto all’insegnamento che gli si vuole impartire. L’esposizione, chiamiamola così, deve avvenire a cosa dell’allievo, nell’ambiente che più gli è consono (…). Oltre a questo, non possiamo pretendere altro da lui. (…) Insomma, si sta cercando di applicare all’insegnamento la tecnica che, usata nella pubblicità, ha ottenuto tanti buoni risultati. Suscitare l’attenzione della gente e indurla a comperare, anche se non ne ha l’intenzione. Nel nostro caso, attrarre l’attenzione dell’allievo e fare sì che impari anche se non ne ha voglia (pp. 18-19).
 
Le risposte della signorina Boltz sono basate, apparentemente, sull’importanza dell’esperienza di vita in comune, secondo la tradizione angloamericana: “Ma il ragazzo non si rende conto dei progressi che fa, e quindi non ha nessun incentivo a imparare... Ma così gli allievi non imparano a vivere con gli altri” (p. 19). E in effetti il racconto, un po’ incongruamente, passa poi a descrivere il graduale successo della signorina Boltz, che, un po’ raccontando delle sue esperienze su Marte, un po’ leggendo Dickens, raduna una piccola comunità di studenti in presenza.
 
Del resto, perché la scuola “comunitaria” individuata dalla signorina Boltz funzioni, non è necessario che coinvolga abilità o conoscenze di particolare peso intellettuale – la bravura sul campo da gioco o la capacità di esprimere “le proprie sensazioni” possono fornire materia prima più che sufficiente per “imparare a vivere con gli altri”. La signorina Boltz parte dal presupposto che la vita di classe porti necessariamente a studiare Shakespeare e la fisica, dopo che si è stabilito il contatto umano; spinta che esiste, senz’altro, ma che, come secondo me mostra la storia degli ultimi decenni, può essere facilmente diretta verso altri obiettivi. Uno dei personaggi della storia, l’avvocato Wallace, cita a un certo punto i problemi della Scuola Nuova, che non sembrano però molto diversi dai problemi della Scuola Vecchia:
 
non sappiamo ancora esattamente che conseguenze ne deriveranno. Il peggio, per il momento, è che i ragazzi non ricevono più nessuna educazione. Gli industriali devono ricominciare tutto da capo per formare il personale. Politicamente non so ancora quali saranno i riflessi, con un elettorato in grado di assimilare le varie nozioni in dosi minime, e per di più estremamente edulcorate (p. 32).
 
Va ricordato anche che l’autore, nell’introduzione all’antologia reperibile su Google Books, torna sui temi del racconto e dichiara di averlo scritto nel 1957 – periodo in cui, prima che la televisione si diffondesse davvero, gli allarmi educativi erano già stati lanciati negli USA per esempio da Rudolf Flesh con il suo notissimo Why Johnny can’t read. Insomma, come mostra l’esperienza quotidiana, è assai dubbio che la scuola in presenza di per sé e automaticamente significhi “educazione” (o “formazione”) di qualità, in assenza di qualcosa di diverso rispetto al semplice “imparare a vivere con gli altri”. Il problema non è così semplice, e il sistema scolastico di tutti i paesi rischia sempre di rimanere con il fianco scoperto di fronte a critiche di questo genere:
… un altro fattore determinante per l’adozione dei nuovi sistemi di insegnamento è il risparmio di denaro che essi comportano. Anziché avere migliaia di costosi edifici scolastici, è sufficiente un unico studio TV. Inoltre si risparmia sugli stipendi degli insegnanti, perché basta un insegnante per varie migliaia di studenti, anziché uno ogni trenta-quaranta allievi. I ragazzi intelligenti impareranno da soli, anche se l’insegnamento è insufficiente, e d’altronde la nostra civiltà non esige di più: pochi elementi ben preparati, in grado di costruire macchine efficienti (p. 20)
 
E del resto, nel mondo della Scuola Nuova, “Ci sono già le scuole private, e chi può ci manda già i propri figli. Gli altri, purtroppo, non sono in grado di pagare” (p. 27). Anche se sono meno drastici nell’applicazione, il modello americano classico e le proposte italiane sull’“eccellenza” non si trovano troppo lontano da questo orizzonte d’idee.
 
Insomma, il racconto è una buona occasione per ricordare che dal dopoguerra a oggi, nei paesi più sviluppati, questioni del genere tornano fuori con regolarità.
 
Non resisto infine alla tentazione di riportare due citazioni che suonano simpaticamente (?) profetiche. Una sul lavoro dei docenti:
 
– Mi pare che vostro nipote abbia lavorato troppo e soffra di esaurimento. 
– I professori giovani [il riferimento all’età manca nell’originale] non hanno un contratto come il vostro – disse Pargrin – e possono essere licenziati in tronco. Lyle ha intenzione di passare all’industria l’anno prossimo, e non gli sarà facile trovare un posto (p. 20).
 
 
A questo punto decise di procurarsi in libreria dei manuali per l’insegnamento alla TV. Purtroppo i testi erano ricchi di esempi per gli insegnamenti di per sé adatti ad una presentazione visiva, ma per quanto riguardava l’inglese non erano certo di grande aiuto (p. 25).
 
In effetti... Nulla di nuovo, da questo punto di vista: i supporti visivi aiutano, ehm, quando si deve parlare di cose visibili o visualizzabili.
 
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