lunedì 16 gennaio 2012

Ostler, The last lingua franca

The last lingua franca: English until the return of Babel di Nicholas Ostler (Allen Lane, London, 2010, ISBN 978-1-846-14215-4, pp. xx + 330) è stato una delle letture più interessanti degli ultimi mesi. In primo luogo perché è un testo che si colloca in uno spazio poco frequentato: scritto per un pubblico generale, ma fondato su competenze solide e capace di dire cose che nelle pubblicazioni per addetti ai lavori, semplicemente, non sono mai state dette.
 
Cose importanti, anche. Ostler parte dallo stato attuale dell’inglese come lingua della comunicazione internazionale e si chiede se questo stato sarà mantenuto in futuro. Secondo lui, oggi è “dominant, indeed commonsense” (p. xvii) l’idea che lo sarà – cosa che contrasta un po’ con la mia percezione: mi pare che moltissima gente pensi che l’inglese sarà presto sostituito dal cinese. Comunque, Ostler ritiene che il ruolo dell’inglese come lingua di comunicazione internazionale non sia affatto garantito, e argomenta la sua tesi in modo molto convincente, partendo da alcune constatazioni di buon senso.

Intanto, una lingua sopravvive a lungo se è lingua madre per qualche comunità; da questo punto di vista il futuro dell’inglese in molte parti del mondo sembra assicurato. Tuttavia, l’inglese è oggi conosciuto soprattutto da persone che non l’hanno assimilato come lingua madre. Anzi, oggi lo parlano (secondo i dati di Ethnologue, rielaborati dall’autore in una tabella interessante a p. 227) 1.143 milioni di persone, di cui “solo” 331 lo usano come lingua madre, mentre il 71% del totale è dato da persone che sono in grado di parlarlo come lingua franca – dato da confrontare con quello del cinese mandarino, 1.051 milioni di parlanti, che però per l’83% sono di madrelingua (e quasi tutto il 17% residuo è formato da persone che vivono in Cina). L’inglese ha quindi un peso eccezionale come lingua franca, anche se due lingue franche di uso geograficamente più circoscritto, lo swahili in Africa e il malese in Asia sudorientale, lo superano come percentuali di non-madrelingua... 98% e 73% rispettivamente.

Il secondo punto di partenza di Ostler è la nozione di “lingua franca”. Nella linguistica contemporanea la si usa tutto sommato poco, preferendole nozioni un po’ più sofisticate come, in italiano, quelle di “lingua straniera” (LS) e “seconda lingua” (L2). Ostler naturalmente conosce queste definizioni, ma ritiene che ai fini della sua analisi risultino inutilmente dettagliate (p. 37). Per speculare sull’evoluzione dei linguaggi basta sapere prendere una categoria generale che contenga “alla language deliberately acquired outside the home environment” (p. 35), etichettato in buona parte del testo come “lingua-franca”, con il trattino. Si tenga presente che in base a questa definizione l’italiano risulta, nella già citata tabella, la lingua franca n. 11 al mondo, in quanto dei 63 milioni di parlanti totali, non lo possiedono come lingua materna ben 23 milioni di persone... che sono, però, in sostanza, gli italiani che hanno come madrelingua il dialetto (al ruolo dell’italiano come lingua franca fuori d’Italia Ostler accenna a p. 227, e alle colonie italiane alle pp. 238-239).

Sulla base appena descritta, Ostler non ha problemi a fare questa previsione generale:

International English is a lingua franca, and by its nature, a lingua franca is a language of convenience. When it ceases to be convenient – however widespread it has been – it will be dropped, without ceremony, and with little emotion. People will not just get around to learning it, not see the point, be glad to escape a previously compulsory subject at school. Only those who have a more intimate relation to it, its native speakers, may feel a sense of loss – much as French people do today when their language is passed over, or accorded no special respect. And those who are conscious of having made a serious investment to learn the language – having misread the signs of change afoot in global communication – may also feel cheated, even disappointed, when others seem to be excused from having to know it. But the world as a whole will shrug and go on transacting its business in whatever language, or combination of languages, next seems useful (p. xv).

I confronti storici con cui Ostler rafforza la sua tesi sono ottimi e convincenti, e forniscono un esempio da manuale di come la storia possa illuminare il futuro. La seconda parte del volume (“Lingua-francas past”, pp. 65-172) è in un certo senso il nucleo del libro, e fa confronti competenti e ragionevolissimi tra l’inglese e una galleria impressionante di altre lingue, dal nahuatl al pali e dal latino al sanscrito.

Ostler però individua bene il punto in cui i confronti con il passato verosimilmente non saranno più utili. Come risulta dal titolo stesso del libro, a suo parere infatti l’inglese sarà “l’ultima lingua franca”: non solo la più recente, ma quella che non avrà successori nel ruolo. Infatti i sistemi automatici di traduzione diventeranno presto – in termini storici – tanto sofisticati da cancellare il bisogno di una vera “lingua franca”. Per intendersi con stranieri, noi o i nostri discendenti useremo d’abitudine sistemi automatici. I quali magari per lungo tempo non saranno in grado di fornire traduzioni perfette, ma presto forniranno traduzioni abbastanza buone da rendere l’apprendimento di una lingua per scopi pratici un cattivo impiego del tempo. O, come dice Ostler,

Ultimately, and perhaps before too long – say by the middle of the twenty-first century – everyone will be able to express an opinion in his or her own language, whether in speech or in writing, and the world will understand (p. 261).

Ostler conosce bene, naturalmente, la lunga serie di stime troppo ottimistiche su questo traguardo. Però, con i distinguo appena fatti, credo anch’io che la sua stima sia ragionevole, e che Google Translate faccia già intravedere un futuro non vicinissimo, ma ragionevolmente sicuro. Peccato per il cinese...

Nota. Ho comprato questo libro una volta tanto su carta, invece che su Kindle, perché sospettavo che contenesse esempi in alfabeti diversi dal latino, o in cinese, e diffidavo della resa elettronica. Sui contenuti non mi sbagliavo... ma il processo editoriale si è rivelato imperfetto anche su carta. L’edizione che ho io riporta caratteri cinesi senza problemi ma esibisce numerosi problemi con gli alfabeti non latini – cosa strana, visto l’argomento specialistico. Per esempio, frasi e parole in arabo vengono riportate in una specie di ingrandimento a bassa qualità alle pagine 63, 83, 93, 94, 104, 106, 178 e 244, mentre ci sono due esempi isolati in cui è stato usato un font corretto a p. 85. A p. 157 si trovano testi in alfabeti dello Sri Lanka, della Cambogia e del Myanmar, correttamente riprodotti, ma a p. 163 compaiono estratti in ebraico e aramaico ripresi da un file immagine molto sgranato. Perfino i simboli dell’alfabeto fonetico, ripresi da un font molto schematico, vengono inseriti in modo molto stridente all’interno di parole in corsivo (per esempio pp. 78-79 e pp. 130-131). Né è l’unico difetto: una mappa a p. 189 è malamente ripresa da un libro e risulta quasi illeggibile, mentre alle pp. 22, 27 e 207 compaiono grafici realizzati probabilmente con gli strumenti di default di Office, fatti con tanta imperizia da usare simboli in sfumature di grigio quasi indistinguibili gli uni dagli altri.

Nessun commento:

Creative Commons License
Blog di Mirko Tavosanis by http://linguaggiodelweb.blogspot.com is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia License.