sabato 28 gennaio 2012

Santambrogio, Manuale di scrittura (non creativa)



Copertina di: Santambrogio, Manuale di scrittura
Sto andando avanti con la ricerca di testi d’appoggio per i miei Laboratori di scrittura, ma i risultati non sono molti e negli ultimi mesi non ho trovato nulla che potesse essere aggiunto alla bibliografia di supporto. La causa di questo problema, credo, è molto semplice: l’insegnamento della scrittura universitaria non ha una lunga tradizione in Italia, e tutti quelli che negli ultimi anni si sono occupati dell’argomento l’hanno fatto (me compreso) sulla base della propria personale esperienza, più che di una idea condivisa.
 
Un esempio ben riuscito di questo stato di cose è il Manuale di scrittura (non creativa) di Marco Santambrogio (Roma-Bari, Laterza, 2006; l’editore mi ha gentilmente spedito una copia dell’edizione pubblicata nella collana Economica Laterza, 2008, ISBN 978-88-420-8640-6, pp. XII + 252, 9,5 €). Anche in questo caso, come nel libro di Cerruti e Cini di cui ho già parlato, il titolo promette molto di più di quanto il manuale non mantenga. Marco Santambrogio è professore ordinario di Filosofia del linguaggio all’Università di Parma e il libro ha quindi, non sorprendentemente, un taglio filosofico; ciò però significa anche che il Manuale di scrittura è in realtà soprattutto un manuale di argomentazione. Al suo interno, problemi come quelli del linguaggio migliore da usare, dell’adattamento al destinatario e così via ricevono solo minimi accenni. Tutti soddisfacenti dal punto di vista linguistico, devo dire, a testimonianza di un’alta professionalità del lavoro (è raro trovare un libro scritto da un non specialista che sia tanto corretto dal punto di vista della linguistica italiana). Ma anche palesemente insufficienti per costituire una specie di “orientamento minimo generale”.
 
Il limite più vistoso nella copertura del libro è dato dal fatto che, appunto, tratta solo di testi argomentativi. Ora, l’argomentazione è importante in molti generi di scrittura, ma con un ruolo molto variabile. Non a caso gli studi sulle tipologie testuali distinguono da decenni tra testi argomentativi e testi regolativi o informativi. Giusto per fare qualche esempio, né un verbale né un manuale di istruzioni hanno come scopo fondamentale quello di convincere di qualcosa i loro lettori. Un manuale per usare un lettore di DVD deve solo presentare informazioni complesse in forma comprensibile, e sarebbe ben curioso un manuale che volesse per esempio spiegare al lettore l’utilità e la bellezza dei film, o cose simili. I problemi connessi alla scrittura di un testo del genere sono ben altri – e in questo libro sono trattati solo per brevi accenni, nei capitoli finali.
 
Letto il testo, non ho quindi dubbi sulla sua efficacia per un lavoro orientato, per esempio, alla scrittura di saggistica filosofica. Buona parte dello spazio è dedicata a questo, e il quinto capitolo (i capitoli in effetti qui sono chiamati “lezioni”), di cui pure si dice che “ad una prima lettura” può essere omesso (p. 113), si addentra molto nella logica, includendo quindi frasi come queste:
 
Di conseguenza è chiaro che, anche se per un particolare nome c, Φ(c) non fosse vero, allora non potrebbe essere vero nemmeno ∀x Φ(x). L’oggetto indicato da c è un controesempio a ∀x Φ(x) (p. 137).
 
Tutto sicuramente vero, ma molto lontano dalle esigenze più importanti per la maggior parte degli studenti universitari (e dei relativi futuri lavori).
 

giovedì 26 gennaio 2012

Spufford, Red plenty



Copertina di Red plenty: le righe del disegno la fanno sembrare storta, ma non lo è
Sugli scaffali della casa dei miei genitori riposano ancora, in pile ordinate, le dispense dei dischi Linguaphone con cui, mezzo secolo fa, mio padre perfezionò il tedesco e imparò l’inglese – e con cui più tardi cercò, in modo piuttosto irregolare e con scarso successo, di insegnare a me entrambe le lingue. In aggiunta alle due serie complete, però, ci sono anche tre dischi di una serie iniziata e interrotta: quella del russo. Ricordo del breve periodo in cui sembrò davvero che il russo, come oggi il cinese, fosse “la lingua del futuro”
 
In quel periodo, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, è ambientato il grosso di Red plenty dell’inglese Francis Spufford (Faber and Faber, London, 2010, ISBN 978-0-571-22524-8, £ 9.99, pp. xiii + 434; molto interessante la discussione su Amazon.co.uk). Avevo adocchiato il libro da un po’, ma durante le vacanze il mio migliore amico me l’ha prestato, e dopo qualche simbolica resistenza me lo sono letto di corsa. Narrativamente non è un bel romanzo, ma non importa. Spufford ricostruisce lo spirito del periodo con una capacità di sintesi eccezionale, e discute a fondo i suoi successi e i suoi insuccessi così come potevano essere visti all’epoca, in attesa del senno di poi.

La struttura del libro è stata adattata dall’autore all’esperimento. Il grosso è formato da diciotto brevi capitoli, costruiti come un romanzo tradizionale, in cui si muove un cast troppo esteso di personaggi, con cui è ben difficile empatizzare. I capitoli sono poi distribuiti in sei sezioni, ognuna delle quali è aperta da un’introduzione storica di una decina di pagine (probabilmente le parti migliori e più ispirate del libro); il tutto si conclude con settanta pagine di note e bibliografia.
 
Certo, si possono dire molte cose negative su questo tentativo. Le mie competenze storiche non mi consentono di valutare a fondo la credibilità della ricostruzione di Spufford, che ha viaggiato in Russia ma confessa candidamente di non sapere il russo (p. 363: niente corso Linguaphone, evidentemente...) e di aver quindi dovuto basare il suo lavoro solo su traduzioni. Questo non è un limite da poco, ma al momento sono incline a perdonare l’audacia del tentativo – anche se ci si chiede perché mai non colmare la lacuna (del resto, il terzo capitolo della quinta parte, Psychophrophylaxis, è in buona parte dedicato a presentare un parto in un ospedale sovietico del 1966 dalla prospettiva della partoriente: Spufford non ha problemi, pare, a occuparsi di cose di cui non potrà mai essere un esperto affidabile).
 
I punti di partenza della storia sono comunque due, e ben scelti. Uno, nel 1938, è il momento in cui Leonid Vital’evič Kantorovič mette di colpo a fuoco, su un affollato tram di Leningrado, un nuovo modo per ottimizzare la produzione industriale (con quella che diventerà poi la programmazione lineare). L’altro, vent’anni dopo, è il momento in cui Nikita Sergeevič Chruščëv arriva negli Stati Uniti, sulla scia dei successi degli Sputnik e a bordo di un Tupolev nuovo fiammante, non solo per lanciare la “coesistenza pacifica”, ma anche per rivendicare l’imminente trionfo del comunismo. Secondo Spufford, infatti, Chruščëv credeva sinceramente che nel giro di pochi anni – entro il 1980 – l’URSS avrebbe superato l’Occidente dal punto di vista economico e del benessere della popolazione. E non era l’unico a pensarlo, né di là né di qua.
 
Come sappiamo, però, le cose sono andate diversamente. Dopo i grandi progressi economici degli anni Cinquanta, l’URSS si è sgonfiata, mentre l’Occidente si è liberato delle forme più vistose di colonialismo, sessismo e segregazione razziale, e si è gettato in una lunga fase di crescita (per quanto strano ciò possa sembrare dalla prospettiva di un’Italia che oggi è immobile da un ventennio). In parte il problema era nei meccanismi economici, in parte anche nella mancanza di visione... Come dice a un certo punto Aleksandr Arkadevič Galič, leggendo una descrizione dell’abbondanza prevista per il 1980 (vestiti comodi e pratici per tutti, possibilità di prendere in prestito strumenti musicali dai depositi collettivi):
 
“That’s it? The dream of the ages, and it comes down to mashed potatoes, woolly socks and shared use of a trombone?” (p. 131).
 
Spufford dedica ampio spazio ai motivi per cui l’economia di piano non poteva funzionare. Non importa. Mi sono trovato a fare il tifo per gli eroi del libro, i pianificatori e gli ottimizzatori, e per l’idea di amministrare la produzione sovietica attraverso i computer del Gosplan. Nella piena consapevolezza che era un’idea che non funzionava... ma con un sospetto agghiacciante, che sospetto che Spufford in parte condivida: che l’Occidente sia riuscito a dare il meglio di sé solo finché ha avuto di fronte un’alternativa del genere, e a possibilità che altre strade si rivelassero migliori.
 
Bene. Adesso si chiudano gli occhi, e si immagini per un attimo che Spufford abbia deciso di fare una versione “migliorata” e “multimediale” del suo libro. Una versione che contenga, insomma, il filmato del Dibattito in cucina tra Chruščëv e Nixon, o qualche spezzone d’epoca di televisione sovietica, o un po’ di manifesti, o qualche spaccato in 3D. Il tutto per “ravvivare” un libro che altrimenti sarebbe stato fatto, purtroppo, solo di parole... Oh, beh. Se qualcuno sente la mancanza di questi elementi, può sempre andare sul sito del libro, e penso concorderà sul fatto che è il libro che dà senso al resto, e non il contrario; e che il libro sta in piedi da solo, grazie alle idee che contiene, mentre foto e filmati presi in isolamento sarebbero solo curiosità.
 

martedì 24 gennaio 2012

I limiti del multimediale nei libri di testo



Schermata di iBooks Author (da Wikipedia)
Come previsto, giovedì scorso la Apple ha fatto il suo annuncio sui “libri di testo”. Avevano ragione sia il Wall Street Journal sia Ars technica: la presentazione da un lato ha mostrato esempi di nuovi libri di testo, dall’altro si è concentrata sullo strumento per realizzarli, iBooks Author. Questo strumento è disponibile solo per Mac: io uso Ubuntu e posso accedere facilmente solo a computer Windows, quindi non sono direttamente coinvolto... ma approfitto di questo distacco per due o tre osservazioni di portata più generale.
 

Uno dei punti di forza del programma, secondo le informazioni promozionali Apple, è la facilità con cui si possono inserire contenuti multimediali in iBooks Author. Come dice la pagina di presentazione, in una sezione chiamata “Add widgets. Add interest”,
 
Widgets add Multi-Touch magic to books with interactive photo galleries that bring images to life, engrossing 3D objects you can’t help interacting with, animations that burst off the page, and more.
 
Quando si cerca di vendere un prodotto, il tono da imbonitori è normale (anche se non molto di buon gusto). Il problema è che molti commentatori sembrano prendere sul serio queste iperboli. Qualche verifica concreta consente però di tornare con i piedi per terra.
 
Ora, per pubblicizzare le funzioni del programma, Apple ha reso disponibile con iBooks 2 (I libri elettronici prodotti con iBooks Author si possono aprire in pratica solo su iPad, con il programma iBooks 2 – limite non da poco) un curatissimo testo divulgativo di E. O. Wilson, prodotto, sembra, con iBooks Author appositamente per l’occasione: Life on Earth: an introduction. Io l’ho provato e, dopo qualche perplessità per alcune scelte d’interfaccia, direi che la multimedialità in alcuni punti è effettivamente utile (dando per scontato che Apple abbia scelto l’argomento che meglio si prestava a mostrare le possibilità del prodotto...). Per esempio, alcuni dei modellini 3D inclusi all’interno del primo capitolo e alcune delle animazioni aiutano a dare un senso del modo in cui si dispone il DNA all’interno del nucleo delle cellule, e così via.
 
Ma è importante notare che l’utilità di questi strumenti, perfino in un libro del genere, è sorprendentemente circoscritta. Gli oggetti tridimensionali servono... beh, quando si parla di strutture tridimensionali. Le interviste in video ai premi Nobel non aggiungono nulla, dal punto di vista informativo, rispetto a un testo scritto. E uscendo dal libro, se si sta cercando di consultare un orario ferroviario, la terza dimensione non serve a nulla. Le immagini possono “dare vita” a un testo di storia dell’arte, ma sono del tutto inutili in un testo di linguistica. Eccetera. Animazioni e 3D potrebbero contribuire ad alcune delle informazioni di contorno di un libro anche solo leggermente più serio di biologia – come, per restare a Wilson, il suo splendido The superorganism, che ho regalato a mio figlio maggiore qualche mese fa – ma per molte altre sono del tutto inutili.
 
Poco male, si può pensare. Ma la cosa non è sempre così neutra. Per esperienza diretta, a volte la facilità di inserire materiali multimediali porta a sindrome che definirei “da ricerca delle scuole medie”. Si prendono immagini e si inseriscono nel testo per puro e semplice ornamento grafico, vagamente connesso all’argomento della ricerca. Ai miei tempi la cosa si faceva ritagliando qualche foto da rivista (in mancanza di stampanti e fotocopiatrici) e incollandola sul quaderno; oppure ricalcando qualche disegno. Oggi spesso si fa qualcosa di più oneroso, ma il principio è lo stesso.
 
Lavorando all’università, io assegno e correggo un bel po’ di lavori scritti: voci di Wikipedia, relazioni, tesi, eccetera. Ultimamente, a occhio, seguo la scrittura di una media di almeno duemila pagine all’anno, spesso rilette tre o quattro volte. E, spesso, devo chiedere a chi scrive i testi di cancellare immagini che non servono a nulla, oppure grafici che presentano informazioni in modo confuso (e molto meno comprensibile rispetto a una tabella, o addirittura a due o tre numeri inseriti in un normale capoverso), o costruzioni informatiche ancora più complesse. Si tratta sempre di lavoro benintenzionato, ma che porta via tempo prezioso.
 
In fase di correzione, mi capita quindi di avere conversazioni di questo genere: “Posso presentare queste informazioni in un ambiente 3D?” No, stanno benissimo su un normale file di testo, e per leggerle in un ambiente virtuale ci metterei un sacco di tempo. “Non posso fare questi interventi sul testo perché salterebbe l’impaginazione delle immagini.” Bene, allora butti via le immagini: in questa relazione non sono importanti, mentre i contenuti sono fondamentali. “Non posso inserire queste informazioni in una diapositiva PowerPoint.” Non c’è problema: lasci perdere le diapositive e le presenti su carta...
 
Nulla di strano, beninteso: i docenti sono lì proprio per fornire indicazioni di questo tipo. Lo strano è che ci sia da combattere continuamente questa battaglia. Ogni nuovo giocattolino scintillante viene lanciato come se fosse “la soluzione per i problemi dell’educazione”, e così via. Ahimè, l’educazione richiede un numero sorprendentemente basso di modelli tridimensionali o di animazioni. E, cosa interessante, ci sono numerosi settori rilevanti che non ne richiedono nessuno. Questo comunque spero sarà l’argomento di un prossimo post.
 

sabato 21 gennaio 2012

Báez, Storia universale della distruzione dei libri

 
Storia
Tra i regali di Natale ho ricevuto anche, ben gradito, un libro del venezuelano Fernando Báez: la Storia universale della distruzione dei libri: dalle tavolette sumere alla guerra in Iraq (Roma, Viella, 2007, ristampa 2010, ISBN 978-88-8334-223-3, pp. xiv + 385; il libro si presenta come “edizione italiana rivista e ampliata” della Historia universal de la destrucción de libros: de las tablillas sumerias a la guerra de Irak, Ediciones Destino, Barcelona, 2004; la traduzione è di Paolo Galloni e Marco Palma).
 
Il libro non è privo di difetti. Da un lato, la traduzione e la cura editoriale non sono di ottimo livello; dall’altro, ci sono diversi problemi interni. Il libro è volutamente acritico, e non tenta per esempio di sistematizzare le cause della distruzione, o di descrivere il modo in cui queste si sono trasformate nel tempo. Il che fa sì che in sostanza sia una lunga lista di eventi di distruzione, da un minimo (manoscritti che l’autore stesso getta nel fuoco: elencati in particolare alle pp. 254-258) a un massimo (persecuzioni sistematiche). Nulla di male in questo, se non fosse che la lista ogni tanto sfugge di mano all’autore. Il grosso del contenuto è infatti disposto in ordine cronologico, ma ogni tanto l’esposizione torna all’indietro nel tempo, spesso senza che vi sia un motivo evidente per farlo: il caso dei documenti requisiti dai franchisti durante la guerra civile spagnola viene quindi, per esempio, presentato due volte (alle pp. 224 e 276), in due capitoli diversi che in parte si sovrappongono.

A un altro livello, non tutte le descrizioni degli eventi sono chiare – l’autore spesso punta a uno stile più evocativo che informativo e quindi a volte si rimane in dubbio su ciò che significhino le sue parole, cosa che ha ovviamente controindicazioni in un libro del genere. Inoltre a volte le descrizioni sono accompagnate da informazioni sulle fonti... e a volte no, in modo piuttosto casuale. E lo stesso accade per le informazioni sul contesto storico. A volte ci sono, e a volte no.
 
In sostanza: se questo libro fosse consegnato come prova di fine corso per uno dei miei Laboratori di scrittura, dal punto di vista formale dovrei richiedere come minimo una passata di correzione. Però è evidente che dietro c’è un lavoro notevole, e a volte utile. Gli esempi di distruzione citati sono veramente centinaia, e alcuni sono piuttosto peregrini. Sarebbe stato senz’altro un libro migliore se avesse affrontato il suo affascinante argomento con spirito sistematico. Non è successo? Pazienza.
 

giovedì 19 gennaio 2012

I libri di testo elettronici non saranno una bacchetta magica

 
Da qualche giorno si parla molto dell’evento che Apple ha organizzato per oggi (giovedì 19 gennaio) a New York. Evento centrato sull’educazione, e di cui sul Wall Street Journal Shara Tibken dice che “is expected to unveil textbooks optimized for the iPad and that feature ways to interact with the content, as well as partnerships with publishers”... il resto dell’articolo non lo vedo, perché accessibile solo ai paganti (o, per un breve periodo, ai registrati).
 
D’altra parte, la rivista online Ars technica riferisce in un articolo di Chris Foreman che “sources close to the matter have confirmed to Ars that Apple will announce tools to help create interactive e-books—the ‘GarageBand for e-books’, so to speak—and expand its current platform to distribute them to iPhone and iPad users”.
 
Beh, ormai basta aspettare qualche ora per sapere chi ha ragione... Ma, indipendentemente dai dettagli dell’innovazione che sarà annunciata oggi, partiamo dal presupposto ottimistico che si tratti comunque di qualcosa di interessante. Che impatto può avere per il mercato dei “libri di testo”? La cosa mi coinvolge anche a livello personale, visto che ho lavorato a un bel po’ di libri di testo, per la scuola e l’università, e uno lo sto chiudendo proprio adesso.
 
È importante ricordare, però, che l’introduzione di “libri di testo elettronici” viene spesso vista in Italia come una specie di bacchetta magica. Per esempio, tra le Cento proposte per l’Italia lanciate il 31 ottobre 2011 sindaco di Firenze Matteo Renzi è stato trovato lo spazio per dedicarne una, la n. 85, agli Ebook per tutti:
 
Moltissimi libri sono liberi dai diritti d’autore, in pratica lo sono tutti i classici della letteratura italiana. L’invenzione degli ebook ha eliminato i costi di stampa e di distribuzione di un libro e, nel caso specifico, non essendoci diritti d’autore, neppure questa voce di spesa è presente. I costi sono soltanto legati alla accessibilità su web dei titoli e l’organizzazione del loro downloading. Il Ministero della Pubblica Istruzione, con spesa molto contenuta, potrebbe offrire la disponibilità degli e-readers a titolo gratuito a tutti gli studenti e promuovere una diffusione simile, a basso costo, anche dei libri di testo.
 
L’autore di questa proposta (forse Giorgio Gori, ex direttore Mediaset) non ha messo a fuoco il problema della codifica dei testi e pare non si renda conto del fatto che i classici della letteratura italiana sono già da tempo disponibili in modo organizzato su diversi siti... nonostante le difficoltà di Bibliotecaitaliana, moltissimi titoli sono per esempio disponibili da decenni sul sito di LiberLiber. Però, anche al di là di questo e delle sgrammaticature, la proposta non mi è molto chiara: si vogliono fornire lettori di ebook gratis a tutti gli studenti italiani con la speranza che leggano classici della letteratura? Beh, perché no? Ben pochi di questi strumenti, temo, verrebbero poi usati effettivamente per leggere – tantomeno per leggere classici della letteratura italiana, che già oggi giacciono in milioni di copie, non particolarmente contese, nelle biblioteche – e il costo dell’operazione a occhio si aggirerebbe sul mezzo miliardo di euro (= 50 € per ogni lettore, moltiplicato per i circa 9 milioni di studenti delle scuole di ogni ordine e grado)... però anche se l’investimento non è troppo sensato, meglio impiegare i soldi in questo modo che in molti altri. Di sicuro, sarebbe un bell’aiutino di Stato per il mercato dei libri elettronici.
 
La proposta comunque, noto, termina evocando i “libri di testo” e i possibili risparmi ottenibili in questo modo. Sullo stesso argomento è tornato due mesi dopo il nuovo ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca, Francesco Profumo, che in un videoforum ha espresso auspici in tal senso: “I libri si spostino sui tablet. Si possono scaricare - non gratis, le cose hanno un valore -. Possono così divenire dei ‘book in progress’, sfruttare al massimo l'interattività. E alla fine si risparmia, pur considerando l'acquisto del tablet”.
 
Al di là di un’affermazione come “non gratis, le cose hanno un valore”, che sarebbe agghiacciante se non fosse evidentemente buttata lì tanto per dire, anche il ministro sembra non essersi accorto di un fatto: nella scuola italiana i “libri di testo” elettronici sono già obbligatori. O meglio, l’articolo 15 della legge 133 del 6 agosto 2008 stabilisce al comma 2 che “A partire dall'anno scolastico 2011-2012, il collegio dei docenti adotta esclusivamente libri utilizzabili nelle versioni on line scaricabili da internet o mista”. Ma, appunto, penso che della bacchetta magica se ne siano accorti in pochi. Sui problemi di applicazione della legge, evidenti già alla sua approvazione, segnalo una bella analisi d’epoca di Francesco Scervini; mi chiedo però come stiano andando le cose adesso, a termini scaduti... Molti editori hanno, credo, ottemperato all’obbligo di legge mettendo in linea da qualche parte i PDF dei propri libri. Molti, immagino, se ne sono semplicemente disinteressati, ben consapevoli del fatto che dal punto di vista pratico è oggi impensabile che in Italia gli studenti possano usare libri di testo principalmente elettronici. Ma non ho informazioni concrete. Cercando in rete, ho trovato solo un comunicato stampa relativo a un sondaggio non pubblicato, e sarei molto curioso di sapere se qualcuno ha dati più precisi.
 
In ogni caso, le osservazioni fatte finora da politici e ministri italiani – e le leggi corrispondenti! – non si alzano molto al di sopra del livello delle conversazioni da dopocena. Viceversa, sui vantaggi, e sui limiti, dei dispositivi elettronici dal punto di vista didattico c’è ormai una bibliografia imponente, che ha prodotto alcune importanti acquisizioni. E, anche se è chiaro che tutto il mondo che ruota attorno ai libri di testo ha un ampio margine di miglioramento, le bacchette magiche si sono rivelate ben poco efficaci di fronte a questo genere di problemi. Su questo argomento spero di scrivere alcuni post nel prossimo futuro – magari illuminato dall’evento che sta per svolgersi oltreoceano.
 

lunedì 16 gennaio 2012

Ostler, The last lingua franca

The last lingua franca: English until the return of Babel di Nicholas Ostler (Allen Lane, London, 2010, ISBN 978-1-846-14215-4, pp. xx + 330) è stato una delle letture più interessanti degli ultimi mesi. In primo luogo perché è un testo che si colloca in uno spazio poco frequentato: scritto per un pubblico generale, ma fondato su competenze solide e capace di dire cose che nelle pubblicazioni per addetti ai lavori, semplicemente, non sono mai state dette.
 
Cose importanti, anche. Ostler parte dallo stato attuale dell’inglese come lingua della comunicazione internazionale e si chiede se questo stato sarà mantenuto in futuro. Secondo lui, oggi è “dominant, indeed commonsense” (p. xvii) l’idea che lo sarà – cosa che contrasta un po’ con la mia percezione: mi pare che moltissima gente pensi che l’inglese sarà presto sostituito dal cinese. Comunque, Ostler ritiene che il ruolo dell’inglese come lingua di comunicazione internazionale non sia affatto garantito, e argomenta la sua tesi in modo molto convincente, partendo da alcune constatazioni di buon senso.

Intanto, una lingua sopravvive a lungo se è lingua madre per qualche comunità; da questo punto di vista il futuro dell’inglese in molte parti del mondo sembra assicurato. Tuttavia, l’inglese è oggi conosciuto soprattutto da persone che non l’hanno assimilato come lingua madre. Anzi, oggi lo parlano (secondo i dati di Ethnologue, rielaborati dall’autore in una tabella interessante a p. 227) 1.143 milioni di persone, di cui “solo” 331 lo usano come lingua madre, mentre il 71% del totale è dato da persone che sono in grado di parlarlo come lingua franca – dato da confrontare con quello del cinese mandarino, 1.051 milioni di parlanti, che però per l’83% sono di madrelingua (e quasi tutto il 17% residuo è formato da persone che vivono in Cina). L’inglese ha quindi un peso eccezionale come lingua franca, anche se due lingue franche di uso geograficamente più circoscritto, lo swahili in Africa e il malese in Asia sudorientale, lo superano come percentuali di non-madrelingua... 98% e 73% rispettivamente.

Il secondo punto di partenza di Ostler è la nozione di “lingua franca”. Nella linguistica contemporanea la si usa tutto sommato poco, preferendole nozioni un po’ più sofisticate come, in italiano, quelle di “lingua straniera” (LS) e “seconda lingua” (L2). Ostler naturalmente conosce queste definizioni, ma ritiene che ai fini della sua analisi risultino inutilmente dettagliate (p. 37). Per speculare sull’evoluzione dei linguaggi basta sapere prendere una categoria generale che contenga “alla language deliberately acquired outside the home environment” (p. 35), etichettato in buona parte del testo come “lingua-franca”, con il trattino. Si tenga presente che in base a questa definizione l’italiano risulta, nella già citata tabella, la lingua franca n. 11 al mondo, in quanto dei 63 milioni di parlanti totali, non lo possiedono come lingua materna ben 23 milioni di persone... che sono, però, in sostanza, gli italiani che hanno come madrelingua il dialetto (al ruolo dell’italiano come lingua franca fuori d’Italia Ostler accenna a p. 227, e alle colonie italiane alle pp. 238-239).

Sulla base appena descritta, Ostler non ha problemi a fare questa previsione generale:

International English is a lingua franca, and by its nature, a lingua franca is a language of convenience. When it ceases to be convenient – however widespread it has been – it will be dropped, without ceremony, and with little emotion. People will not just get around to learning it, not see the point, be glad to escape a previously compulsory subject at school. Only those who have a more intimate relation to it, its native speakers, may feel a sense of loss – much as French people do today when their language is passed over, or accorded no special respect. And those who are conscious of having made a serious investment to learn the language – having misread the signs of change afoot in global communication – may also feel cheated, even disappointed, when others seem to be excused from having to know it. But the world as a whole will shrug and go on transacting its business in whatever language, or combination of languages, next seems useful (p. xv).

I confronti storici con cui Ostler rafforza la sua tesi sono ottimi e convincenti, e forniscono un esempio da manuale di come la storia possa illuminare il futuro. La seconda parte del volume (“Lingua-francas past”, pp. 65-172) è in un certo senso il nucleo del libro, e fa confronti competenti e ragionevolissimi tra l’inglese e una galleria impressionante di altre lingue, dal nahuatl al pali e dal latino al sanscrito.

Ostler però individua bene il punto in cui i confronti con il passato verosimilmente non saranno più utili. Come risulta dal titolo stesso del libro, a suo parere infatti l’inglese sarà “l’ultima lingua franca”: non solo la più recente, ma quella che non avrà successori nel ruolo. Infatti i sistemi automatici di traduzione diventeranno presto – in termini storici – tanto sofisticati da cancellare il bisogno di una vera “lingua franca”. Per intendersi con stranieri, noi o i nostri discendenti useremo d’abitudine sistemi automatici. I quali magari per lungo tempo non saranno in grado di fornire traduzioni perfette, ma presto forniranno traduzioni abbastanza buone da rendere l’apprendimento di una lingua per scopi pratici un cattivo impiego del tempo. O, come dice Ostler,

Ultimately, and perhaps before too long – say by the middle of the twenty-first century – everyone will be able to express an opinion in his or her own language, whether in speech or in writing, and the world will understand (p. 261).

Ostler conosce bene, naturalmente, la lunga serie di stime troppo ottimistiche su questo traguardo. Però, con i distinguo appena fatti, credo anch’io che la sua stima sia ragionevole, e che Google Translate faccia già intravedere un futuro non vicinissimo, ma ragionevolmente sicuro. Peccato per il cinese...

Nota. Ho comprato questo libro una volta tanto su carta, invece che su Kindle, perché sospettavo che contenesse esempi in alfabeti diversi dal latino, o in cinese, e diffidavo della resa elettronica. Sui contenuti non mi sbagliavo... ma il processo editoriale si è rivelato imperfetto anche su carta. L’edizione che ho io riporta caratteri cinesi senza problemi ma esibisce numerosi problemi con gli alfabeti non latini – cosa strana, visto l’argomento specialistico. Per esempio, frasi e parole in arabo vengono riportate in una specie di ingrandimento a bassa qualità alle pagine 63, 83, 93, 94, 104, 106, 178 e 244, mentre ci sono due esempi isolati in cui è stato usato un font corretto a p. 85. A p. 157 si trovano testi in alfabeti dello Sri Lanka, della Cambogia e del Myanmar, correttamente riprodotti, ma a p. 163 compaiono estratti in ebraico e aramaico ripresi da un file immagine molto sgranato. Perfino i simboli dell’alfabeto fonetico, ripresi da un font molto schematico, vengono inseriti in modo molto stridente all’interno di parole in corsivo (per esempio pp. 78-79 e pp. 130-131). Né è l’unico difetto: una mappa a p. 189 è malamente ripresa da un libro e risulta quasi illeggibile, mentre alle pp. 22, 27 e 207 compaiono grafici realizzati probabilmente con gli strumenti di default di Office, fatti con tanta imperizia da usare simboli in sfumature di grigio quasi indistinguibili gli uni dagli altri.

mercoledì 11 gennaio 2012

Aggiornamento: stampatello minuscolo

Beh, stamattina nella classe di mia figlia hanno iniziato a fare lo stampatello minuscolo (o, come scrivono loro, lo stampato minuscolo). Ecco le prime prove di questo esercizio di prima elementare.

Primo stampatello minuscolo

Per ora si tratta solo di alfabeto italiano: nessun accenno a j, k, w, x, y.

martedì 10 gennaio 2012

Stampatello maiuscolo in prima elementare

Anche se lavoro nel settore, mi guardo bene dall’interferire con quello che fanno i miei figli a scuola. Regola uno: mai mettere le mani nel lavoro degli insegnanti. La regola è facile da rispettare, credo, anche perché le scuole con cui abbiamo avuto a che fare sono sempre state di alto livello... Decisamente migliori di quelle in cui ho studiato io, tanto per fare un esempio.

Com’è ovvio, però, seguo con attenzione quello che viene fatto. In particolare per mia figlia, che quest’anno è in prima elementare e sta “imparando” a leggere e scrivere. Le virgolette ci vogliono perché, come in molti casi – non in tutti – i bambini ora arrivano in prima elementare sapendo già leggere e scrivere. A volte in modo non uniforme, beninteso: mia figlia ha imparato a scrivere quasi due anni fa, e si è regolarmente divertita a copiare scritte in stampatello, ma fino alla fine dell’anno non era mai riuscita a leggere. Con la scuola, subito prima delle vacanze ha imparato invece a leggere rapidamente e ad alta voce.

In ogni caso, l’insegnamento si è adattato alle circostanze. Ho visto che i metodi variano da classe a classe, ma nel nostro caso l’impostazione è stata questa:
  • partire dall’inizio dell’anno scrivendo su quadernoni A4 a quadretti di un centimetro
  • iniziare praticamente subito con i caratteri in stampatello maiuscolo (senza passare dalle fasi di “cornicine” che ancora oggi ricordo, dalla mia remota infanzia, come una noia mortale)
  • completare l’alfabeto in stampatello maiuscolo (cosa avvenuta alla fine di dicembre) prima di passare ad altri tipi di scrittura
  • scrivere un carattere per ogni quadretto
  • indicare la separazione tra le parole non con un quadretto bianco, ma con un quadretto che contiene un puntino
  • lasciare tra una riga di scrittura e l’altra una riga vuota, indicata da un puntino nel quadretto iniziale
  • soprattutto, copiare molti testi dalla lavagna
Come dicevo, non è un’impostazione universale. In molte scuole di Pisa, per esempio, i quattro tipi di scrittura previsti (stampatello maiuscolo e minuscolo, corsivo maiuscolo e minuscolo) vengono studiati contemporaneamente. Non so se ci siano studi scientifici sulla maggiore efficacia dell’un approccio o dell’altro... a una prima ricerca, non ne ho trovati; probabilmente, come per molte altre cose, sul lungo periodo le differenze di metodo non producono differenze misurabili di apprendimento, ma sarebbe interessante saper qualcosa di più.

Per quanto riguarda il disegno dei caratteri, se ho visto bene non viene data nessuna indicazione sul modo in cui devono essere tracciati (dall’alto, dal basso, etc.). O perlomeno, mia figlia esegue le sequenze in modo piuttosto idiosincratico – e anche qui mi chiedo se sia utile o meno dare indicazioni esplicite sul percorso migliore di tracciamento.

Le insegnanti, inoltre, hanno evitato di dare un nome alle lettere: invece di chiamarle “esse”, “zeta”, eccetera, mi sembra ci sia solo l’uso di dare la pronuncia corrispondente (s, z...). Nei casi in cui una lettera corrisponde a più di una pronuncia? Non so. Di sicuro, mi sembra che non venga nemmeno notato il fatto che una E può corrispondere a una e aperta o a una e chiusa, eccetera (il che in una scuola toscana non dovrebbe produrre particolari difficoltà).

A ogni modo, nella trascrizione di ieri (riprodotta qui sotto, in file ad alta definizione) direi che sono stati abbandonati i puntini tra le parole. Il programma prevede poi che si passi ai digrammi e ai trigrammi. Attendo con interesse.

domenica 8 gennaio 2012

Nuovi blog: ROARS e Mike Rose

Per l’anno nuovo ho fatto un po’ di ordine nella colonna dei blog qui a sinistra. Intanto ho aggiunto gli snippet dei nuovi post: spero che siano un buon modo per dare un’idea dei contenuti!

In secondo luogo, ho fatto un po’ di pulizia, mettendo in parcheggio i blog meno aggiornati (o più lontani dalle mie aree di interesse) e facendo un paio di aggiunte. Innanzitutto ROARS (Return On Academic ReSearch), che in effetti è un prodotto collettivo coordinato da un gruppo di docenti e ricercatori universitari italiani. ROARS ha l’obiettivo di “intervenire in modo credibile e competente in una discussione che abbia per interlocutori coloro che devono gestire il processo di trasformazione dell’università italiana e specialmente le forze politiche che si candidano a governare in futuro il Paese” e centrata sui rapporti tra la ricerca accademica e il resto della società. ROARS fino a oggi ha pubblicato contributi di notevole livello, presentando sia materiale originale sia collegamenti commentati ad altre fonti: di questo genere di pubblicazioni c’è estremo bisogno, e rispetto al chiacchiericcio dei quotidiani siamo decisamente su un altro piano.

Il secondo blog che ho aggiunto è quello di Mike Rose, chiamato semplicemente Mike Rose’s Blog. Rose è un esperto di educazione e soprattutto di ciò che in inglese si chiama literacy e in italiano... beh, non c’è il concetto corrispondente, ma se ne ha un’idea sommando “alfabetizzazione” e “competenze e capacità in lettura e scrittura”. Il blog ripresenta materiali già apparsi su altre pubblicazioni e ha cadenza più o meno mensile. In quanto ai contenuti, Rose è un esperto dell’integrazione tra literacy e attività pratiche, soprattutto in rapporto a quella che negli Stati Uniti è la working class. Molto spesso si tratta di letture affascinanti, che corrispondono molto alle mie esperienze e che dovrebbero far considerare buona parte dei discorsi italiani sul “poverini, mandiamoli a lavorare e non a studiare, per il loro bene” per ciò che sono: idiozie.

mercoledì 4 gennaio 2012

Pasquali, Scritti sull'università e sulla scuola

Giorgio Pasquali (da Wikipedia)

Da secoli una quantità sorprendente delle energie mentali d’Europa (e dintorni) viene impegnata a discutere di riforme dell’università. Nella letteratura, credo che l’esempio più toccante di questa fedeltà sia la sfortunata Tony Buddenbrook di Thomas Mann, che, avendo amato uno studente povero e politicizzato nella Lubecca pre-1848, decenni più tardi torna, meccanicamente, a infervorarsi sull’argomento nelle conversazioni (“Vuol credere, per esempio, che solo pochissimo tempo prima del fidanzamento ho saputo che quattro anni prima erano state rinnovate le leggi federali sulle università e la stampa? Belle leggi, del resto!...”).

Bon. Con un po’ di esperienza, direi che, quando le riforme universitarie vengono trattate nello spazio di un articolo di giornale, l’autore ne esce sempre male. Le descrizioni sensate richiedono misura di libro: condizione necessaria, ancorché non sufficiente, per trattare in modo convincente un organismo complesso come l’università nel suo assieme, che più di ogni altro pezzo della società contemporanea deve rispondere a spinte diverse (didattica, ricerca, formazione professionale...). Per gli Stati Uniti, una sintesi bilanciata e ragionevole è secondo me quella recente di Derek Bok, di cui ho già parlato. Per l’Italia, viceversa, non saprei indicare nulla di recente e condivisibile. Il che è un problema.

In mancanza di meglio, nel periodo delle feste ho quindi letto un classico: gli Scritti sull’università e sulla scuola di Giorgio Pasquali, nell’edizione curata nel 1978 da Marino Raicich (Firenze, Sansoni; XLVIII + 442 pagine). Il volume, come si capisce dal titolo, raccoglie diverse opere di Pasquali, tra cui articoli sparsi e i contenuti interi della silloge Università e scuola, pubblicata in origine nel 1950 (mancano invece gli articoli pubblicati nella più celebre silloge Pagine stravaganti). Il grosso del volume (i due terzi...) è però formato dalla riproposizione integrale del libro L’università di domani, pubblicato nel 1923 e mai riproposto altrove. Pasquali lo pubblicò assieme a Piero Calamandrei, ma il libro è sostanzialmente del primo autore, che su 300 pagine di testo ne scrisse 190 di “Parte generale” e una trentina dedicate alla Facoltà di Lettere. Calamandrei scrisse invece settanta pagine dedicate alla Facoltà di Giurisprudenza, e un’appendice sulla nomina dei professori.

Trattata l’area umanistica, gli autori dell’Università di domani auspicavano che i loro sforzi venissero integrati da quelli di docenti di altre facoltà, ognuno dei quali avrebbe dovuto descrivere la propria particolare situazione. I contributi supplementari però non arrivarono mai: il 1923 non era momento propizio. Non solo per le convulsioni politiche e l’instaurazione del regime fascista ma, più nello specifico, perché nel giro di mesi venne approvata la riforma Gentile dell’università. Che da un lato era politicamente blindata, ma dall’altro veniva incontro, di fatto, a molte delle esigenze di Pasquali e Calamandrei (i quali entrambi, è bene ricordarlo, pur aderendo al Manifesto degli intellettuali antifascisti, alla fine giurarono fedeltà al regime).

Leggere oggi il libro così come lo lasciarono gli autori nel 1923 dà quindi da pensare a diversi livelli. Io ne distinguerei due: quello di straniamento, in quanto la lettura mette di fronte in modo traumatico ad alcune cose che sono state per fortuna superate, e ad altre che sono rimaste sorprendentemente uguali; e dall’altro quello di discussione degli obiettivi – che, cosa strana (ma non troppo), sono ancora oggi in buona parte condivisibili.


1. Ciò che è stato superato e ciò che è rimasto uguale

Novant’anni possono essere anche pochi, nella società. Nel caso di questo libro sono molti, perché in mezzo c’è stato quel processo di liberazione culturale che dagli anni Cinquanta alla fine dei Settanta, passando dal Sessantotto, ha dato un bel colpo ad alcuni indifendibili punti di riferimento della civiltà occidentale: razzismo e sessismo in primo luogo. Così, colpisce oggi (e colpiva Raicich già nel 1978) il modo in cui Pasquali parla delle donne... dando per scontata la loro assoluta inferiorità. Giusto per dare un campione di un concetto ripetuto diverse volte nel libro, e mai in modo ironico:

Certo, già la compagnia che tra loro si fanno giovani dati a studî diversi, impedisce che la specializzazione scolastica soffochi l’umanità in essi, o, per meglio dire, negli studenti maschi: le signorine si esauriscono completamente, e completamente si esauriranno per tutta l’eternità, nell’andare a scuola, prendere appunti, ricopiarli, mandarli a memoria; esse, a parlar propriamente, hanno solo anima vegetativa e affettiva, mancano di anima intellettuale (p. 183).

Di razze umane per fortuna, se ho ben visto, non se ne parla (a parte un ambiguo riferimento alla “comunità israelitica d’una grande città” a p. 171, e una nota sulla Cina che richiamerò più oltre). Ma non è difficile immaginare quali idee potesse avere Pasquali, in coerenza con il clima dell’epoca... E questo nonostante la polemica contro il nazionalismo negli studi, che si trasformava d’altra parte in Pasquali in regolare difesa della Germania e addirittura in celebrazione lirica (nel 1951!) del popolo tedesco come il “più alto” tra gli europei (p. 439, in un articolo che include, nella veste pubblicata qui, anche un polemico commento d’epoca di Enzo Enriques Agnoletti proprio a questo slancio di entusiasmo).

Se il libro sembra quindi per certi versi venire da un altro pianeta, per altri sembra scritto ieri. Ritoccando qualche frase e qualche giro di parole qua e là, molti dei discorsi di Pasquali sull’università potrebbero essere stati scritti ieri, a commento di qualche “riforma” o proposta di riforma recente. Tra gli argomenti toccati ci sono gli orari dei docenti, la didattica seminariale, il problema del reclutamento, il ruolo dei “precari” (allora istituzionalizzato con la “libera docenza”), il valore del titolo di studio, la concorrenza tra le sedi... Tutte cose su cui si torna e si ritorna a intervalli regolari, in quanto prodotto dell’incontro di spinte di sistema, tradizioni, abitudini e volontà di compromesso.

2. Gli obiettivi

Sfrondato dagli aspetti più superficiali, comunque, il discorso di Pasquali è in buona parte condivisibile. Il suo modello è quello tedesco e humboldtiano: l’università è una comunità di persone che fanno didattica e ricerca, e didattica attraverso la ricerca. Lontanissimo quindi dal modello inglese (l’università è il posto in cui si fa vita sociale insieme...) e da quello ibrido americano che si stava consolidando negli stessi anni.

In totale coerenza con il modello, la didattica migliore è quindi per Pasquali quella organizzata per seminari, e non per lezioni. E l’unica didattica utile è quella in cui lo studente impara qualcosa che va a formare la persona. Tutto ragionevolissimo, ancora oggi, e molto familiare, in un periodo in cui sembra che la formazione universitaria venga vista come pura e semplice somma di “crediti”. Resta ovviamente il problema di come conciliare queste spinte con alcune caratteristiche dell’università di massa – ma a Pasquali, morto nel 1952, questo problema era destinato a rimanere del tutto estraneo.

L’autore porta poi il discorso avanti proponendo ciò che all’epoca era un passo indietro: uno dei punti chiave del suo progetto era infatti l’abolizione degli “esami speciali” che si erano affermati nel periodo, cioè in pratica degli attuali esami di fine corso. Nella sua ottica lo sbocco naturale della preparazione universitaria è dato da una parte dalla laurea come titolo scientifico, e dall’altra da un esame di Stato per tutti i titoli che abbiano valore professionale. Lì, e quasi solo lì, si valuta ciò che si deve valutare. Del resto, la frequenza ai seminari assicurerebbe il fatto che gli studenti non vadano allo sbaraglio a queste prove finali.

Le finalità dell’esame di Stato vengono descritte quindi in questo modo: “un esame complessivo, ordinato in modo da fornire allo Stato sufficiente guarentigia che il candidato possieda non solo le cognizioni, ma anche le abilità indispensabili all’esercizio professionale” (p. 25). E il modo in cui Pasquali disambigua le finalità del sistema è ancora oggi in buona parte condivisibile:

Della scienza si dà saggio in un modo solo: lavorando scientificamente e pubblicando i proprî lavori, rendendo cioè pubblicamente conto dei metodi seguiti e offrendo i risultati alla verifica dei competenti. Ma la società non ha nessun interesse a misurare la scienza di un tale, perché questa non ha valore sociale diretto e immediato in quanto scienza, ma soltanto nelle sue applicazioni. Un interesse sociale a verificare la capacità di alcuno sorge appena essa è rivolta a fine professionale; e in questo caso l’organo della collettività non può essere se non lo Stato. Poiché tutti hanno interesse a sapere se un tale ha le nozioni e abilità indispensabili per fare quel che professa di voler fare, il medico, l’avvocato, l’ingegnere, l’insegnante di lettere o di scienze naturali, o se è invece uno sfrontato ciarlatano, è doveroso che lo Stato compia esso la verifica, per mezzo di un esame opportunamente ordinato a tal fine (pp. 25-26).

In retrospettiva, la cosa più interessante da dire novant’anni dopo è molto semplice: il modello di Pasquali può essere riproposto ancora oggi perché, semplicemente, è così che funzionano gli esseri umani e la conoscenza. Rimane il dubbio di quale ruolo dare ad alcuni tipi di competenze e abilità, e rimangono fuori diverse questioni importanti che riguardano tutte le università moderne. Tuttavia, forse non si sbaglia se si dice che oggi la politica universitaria si è clamorosamente dimenticata di molte considerazioni di banale buon senso.

3. La scrittura

Per me è poi interessante notare che nell’università sognata da Pasquali grande spazio avrebbe dovuto essere assegnato alla scrittura, sia durante il corso degli studi sia durante le due verifiche finali (laurea ed esame di Stato). Su questo poi anche Calamandrei concorda, a p. 234 per quanto riguarda gli esami durante il corso e alle pp. 277-78 per gli esami di Stato.

Per quanto riguarda più specificamente il corso degli studi, Pasquali parla di scrittura soprattutto in un articolo del 1920 e incluso in questa raccolt, Contro gli esami nella Facoltà di Lettere. Qui l’autore entra in dettaglio sul discorso dell’abolizione degli “esami speciali” e ritiene che negli esami complessivi, da dare come dimostrazione della conoscenza di materie molto ampie, le “prove scritte” dovrebbero avere “posto ancor più importante che quelle orali”. Queste prove dovrebbero anche includere “un breve lavoro d’indole scientifica, da farsi a casa dentro termini di tempo ragionevoli, magari prorogabili, sur un tema assegnato dal professore d’accordo con il candidato” (p. 388). Questo assetto, tra l’altro corrisponde al sistema ancora in uso nella Scuola Normale di Pisa (dove, per esempio, per la classe di Lettere sono obbligatori i “colloqui” di passaggio d’anno, con relazioni appunto su un tema concordato), di cui Pasquali fu professore incaricato presso il Seminario di Filologia classica a partire dal 1930, e dove mi sembra che la pratica abbia ancora oggi la sua importanza.

Nell’Università di domani Pasquali invece insiste sulla scrittura soprattutto parlando di esami di Stato, e la sua posizione in merito è decisa: “solo la prova scritta, almeno in legge e in lettere, può assicurarci quali risultati [il candidato] possa conseguire da sé, ove abbia agio di riflettere e disponga degli strumenti di lavoro indispensabili” (p. 32). Pasquali ritiene inoltre che “il miglior modo” per svolgere questa prova “sarebbe di assegnare a ciascun candidato un diverso tema di lavoro da svolgersi dentro un tempo determinato, poniamo un mese, a casa sua, con l’aiuto dei libri proprî e delle biblioteche pubbliche” (sempre p. 32). Di fronte all’ovvio rischio che in una prova del genere i candidati presentino lavori in realtà preparati da altri, l’autore ricorda innanzitutto che questo era un problema già endemico con le lauree dell’epoca; ritiene poi che il problema possa essere ridotto da un lato da una discussione consistente in “una serie di domande dirette a mettere in luce quanto cosciente delle proprie argomentazioni e conclusioni sia l’esaminando”, e dall’altro da prove scritte integrative “da compiersi in poche ore in una sala sotto sorveglianza rigorosa” (p. 33). In questo, propone anche di prendere ispirazione per alcuni punti dal sistema per la selezione dei mandarini cinesi, e in particolare dall’uso di cellette dedicate per esami (p. 33, con toni di ironica superiorità – e del resto, Pasquali parla di “Celeste Impero” come se ai suoi tempi la Cina non fosse divenuta già da anni una repubblica; possibile che, semplicemente, non lo sapesse?).

Infine, in coerenza con questa impostazione, Pasquali difende l’elaborato di laurea (pp. 46-47). Allora come oggi, ovviamente, l’elaborato di laurea è visto come fumo negli occhi da parte di chi vuol togliere all’università il suo carattere humboldtiano e trasformarla in scuola superiore. Vale la pena trascrivere qui il discorso intero di Pasquali:

Il più noto nemico [non riesco a capire a chi si riferisse] dell’indirizzo scientifico nell’insegnamento superiore apre la sua crociata contro l’Università scientifica, proponendo di abolire la laurea. Questa sembrerà ragione sufficiente per mantenerla a chi, come me, nella missione scientifica dell’Università e nella scientificità dell’insegnamento superiore crede fermamente. E infatti, finché gli esami speciali non saranno aboliti, la laurea sarà necessaria. Troppo evidentemente assurdo è che uno sia abilitato a una professione liberale, solo perché ha saputo ripetere con ordine approssimativo e chiarezza sufficiente dieci, quindici, venti corsi di lezioni. La tesi offre allo studente di materie non sperimentali l’unica occasione di far qualcosa di meglio che ascoltare in silenzio e con attenzione, appuntare, mandare a memoria e... rovesciare, come dicono i Siciliani quando vogliono parlare decente (pp. 46-47).

Giusto per smorzare gli entusiasmi, Pasquali a questo punto giustifica il suo amore per la laurea sulla base dell’esperienza: “le studentesse di lettere” si rivelano “inferiori agli uomini” nella laurea, e non negli esami... Ma fatta la tara al sessismo, Pasquali ha qualcosa di più interessante da dire su un argomento che ancora oggi torna fuori:

Mi siano risparmiati i predicozzi sull’immoralità di una istituzione che incita menti non ancora interamente formate a una produzione immatura. Quando una mente sarà formata completamente? E quali sono, di grazia, i limiti tra attività ricettiva e produzione? Anzi, è possibile, è concepibile un apprendere puramente ricettivo? (p. 47).

Giustissimo. Anche se negli anni Cinquanta, tornando sull’argomento in un articolo qui incluso, Pasquali dichiara “che i più degli studenti, anche ragazzi studiosi e capaci, a ventidue, ventitré, venticinqu’anni non sono in grado di organizzare un lavoro di lena siffatto che metta conto pubblicarlo, che è la guarentigia più sicura che esso è veramente scientifico” (p. 326), la sostanza non cambia. Secondo un discorso riproposto anche a p. 421, il punto chiave è che la laurea come lavoro scientifico pubblicabile è possibile solo se lo studente si è fatto le ossa più a monte, con lavori preliminari.

In conclusione: Pasquali fornisce una testimonianza d’annata sul nesso stretto tra scrittura, ricerca scientifica e formazione. A novant’anni di distanza, non mi sembra che su questo punto ci siano state novità sostanziali – semmai, battaglie che continuano a ripetersi.

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