lunedì 28 novembre 2011

Ferraris, Documentalità

La settimana scorsa ho iniziato a parlare di Documentalità di Maurizio Ferraris (Roma-Bari, Laterza, 2010, ISBN 978-88-420-9106-6, pp. 429, 24 €), evidenziando la quantità impressionante di approssimazioni e inesattezze presente nel libro. Tuttavia, il libro contiene una quantità altrettanto impressionante di digressioni. È quindi possibile che approssimazioni e inesattezze siano presenti solo nelle digressioni e che alla base del libro si trovi un ragionamento solido?

Come anticipato nel post precedente, la risposta è: solo in parte. Ferraris ha notato che la maggior parte degli addetti ai lavori, e del pubblico, non ha assimilato alcune importanti scoperte sulla scrittura, fatte da personaggi come Derrida e Harris. Tuttavia, il nucleo del libro è dedicato a un’idea che è in sostanza falsa. Vediamo quindi in dettaglio questi problemi nell’argomentazione chiave, basandoci sul riassunto presentato da Ferraris stesso sotto forma di sintesi delle sue 11 “tesi fondamentali” nella sezione finale del testo (pp. 358-362; anche questa definizione tra l’altro condivide l’approssimazione espressiva di tutto il libro, e diverse “tesi” in realtà non sono “tesi”, ma definizioni). Al centro del libro si trova in effetti “la regola costitutiva degli oggetti sociali”, che secondo Ferraris può essere sintetizzata nell’equivalenza “Oggetto = Atto Iscritto” (p. 360; le maiuscole sono nel testo).

Che cosa significa questo? In sostanza, che un “oggetto sociale” deve corrispondere a un “atto iscritto”. Si può anche essere d’accordo, ma che cosa sono gli “oggetti sociali” e gli “atti iscritti”?

Atti sociali

Ferraris propone “di chiamare ‘sociale’ qualunque atto che intercorra fra almeno due persone formalmente consapevoli del fatto che questo atto ha luogo” (p. 185, corsivo suo). Naturalmente, ognuno può proporre a piacimento una propria definizione per qualunque cosa. In questa specifica definizione però colpisce un fatto: non corrisponde a molti atti che si possono definire come “sociali” (è anche difficile definire quand’è che una persona è “formalmente” consapevole di un atto, ma lasciamo questo da parte).

Non è quindi difficile proporre una lista di “atti” che a me sembrano perfettamente “sociali” (e che anche molti, penso, considererebbero tali) ma che è per vari motivi difficile far rientrare nella definizione di Ferraris. Per esempio, sfilare un portafoglio dalla tasca del cappotto di uno sconosciuto mi pare un atto sociale, ed è un furto sia che, sul momento, la vittima se ne accorga sia che non se ne accorga (e magari rimanga anche in futuro nel dubbio di aver perso il portafoglio quando si è chinata sul ponte per allacciarsi le stringhe...): se un vigile di passaggio si accorge della cosa, è legittimato a intervenire, indipendentemente dalla “consapevolezza” della vittima. Oppure, “andare alla partita” è senz’altro un atto sociale, ma “fra” quali persone avviene? E, più radicalmente, acquistare un biglietto del treno a un distributore automatico è un atto sociale, anche se coinvolge una sola persona? Secondo me, senz’altro... e troverei molte difficoltà a distinguerlo da questo punto di vista rispetto all’acquistare un biglietto da un venditore umano. Eccetera eccetera.

Prendiamo comunque per buona la definizione, e trattiamo da qui in poi come “atti sociali” solo quelli che, arbitrariamente, Ferraris considera tali.

Atti iscritti

Proseguendo nel suo ragionamento, Ferraris dice che tratto caratteristico degli atti sociali è il loro corrispondere a un “atto iscritto”: niente registrazione, niente atto. La pretesa sembra abbastanza assurda, visto che molti atti sociali si compiono attraverso azioni che non hanno nulla a che fare con la “scrittura” così come la si intende normalmente.

Se si accettano le definizioni di Ferraris, però, una parte dell’assurdità scompare. Alla base del libro si trova infatti una definizione di “iscritto” che comprende in pratica tutto ciò che lascia tracce nel mondo. Naturalmente, essendo il livello delle definizioni del libro quello che è, a volte si trovano formulazioni più restrittive di “iscritto” (per esempio, a p. 176) e a volte formulazioni più di manica larga (per esempio, alle pp. 231-232), e spesso non è chiaro a quale si faccia riferimento nei vari punti. Tuttavia, anche le definizioni più restrittive hanno un’uscita di sicurezza: tra i “supporti” per le “iscrizioni” Ferraris inserisce anche “la mente delle persone” e i “neuroni” (p. 176). In altri termini, anche un ricordo può per lui essere un’“iscrizione”.

Una definizione simile è molto più coerente di quella di “atto sociale”. Infatti, Ferraris si avvicina (senza metterla a fuoco) a una nozione potente: quella di informazione. Gli atti sociali sono sicuramente in buona parte composti da “informazione”, e l’informazione, a sua volta, ha sempre bisogno di un supporto materiale, con il quale a volte ha un rapporto tutt’altro che meccanico. Il discorso è centrale per moltissime discipline, è alla base di un fortunato libro di James Gleick di cui spero di parlare prossimamente qui, e Ferraris l’ha in parte riscoperto (senza aver inquadrato la relativa bibliografia). Non ho quindi obiezioni sul concetto in sé: ogni atto sociale deve lasciare una traccia nel mondo, perché, almeno in base a ciò che oggi sappiamo di fisica e informazione, in caso contrario non potrebbe nemmeno esistere (qualcuno può immaginare un atto sociale che non sposti nemmeno una molecola o un fotone?).

Il problema della definizione di “iscrizione” data da Ferraris sta però nella sua mancanza di potere caratterizzante. Oltre agli atti sociali, che cos’è che lascia “iscrizioni”? La risposta è: tutto. Inclusi per esempio i desideri inespressi, le emozioni e le intenzioni degli esseri umani, che verosimilmente lasciano nel cervello dei soggetti qualche traccia fisica – anche se abbiamo modi solo rudimentali per individuarle.

Più nello specifico, visto che gli esseri umani consapevoli hanno per definizione una memoria, dire che un atto sociale avviene tra due persone “consapevoli” implica di necessità che lasci qualche “iscrizione” mentale (più o meno labile, ma questo è un altro discorso). E allora? Un’“iscrizione” di questo genere si produce in qualunque atto consapevole degli esseri umani, anche in isolamento e al di fuori della società. Non si capisce quindi su quale base Ferraris possa dire che gli atti che producono oggetti sociali “sono caratterizzati dal fatto di essere iscritti su un supporto fisico qualunque, dal marmo ai neuroni, passando per la carta e andando oltre, nel mondo del web” (p. 176, corsivo mio). C’è qualunque atto consapevole che coinvolga due persone e che non rientri in questa definizione? O che non lasci un’iscrizione nel senso appena visto? In sostanza, quindi, Ferraris sta dicendo che sono “atti sociali” gli atti che hanno la caratteristica di essere... sociali, cioè di svolgersi tra almeno due persone consapevoli.

Importanza della memoria

I ragionamenti di Ferraris su questi argomenti sono condivisibili in un punto chiave: far notare che per molti atti sociali è importante, più ancora della comunicazione, la registrazione. Tuttavia, appena fatto questo passo, Ferraris lo sommerge in un mucchio di osservazioni discutibili e prive di base – per esempio, dichiarando che la “registrazione” sarebbe in media più importante della “comunicazione”. Io non ne sono altrettanto certo. Può anche darsi che sia vero, ma Ferraris come fa a saperlo? A sostegno di dichiarazioni così impegnative non ci sono dati, solo aneddoti.

Sull’importanza della registrazione mi sembra quindi che la considerazione più appropriata sia, al solito: “dipende”. In alcune circostanze è importante comunicare, in altre registrare. Aneddoto per aneddoto... io ho avuto in dono dalla natura (e forse dallo studio) una memoria molto scarsa per diversi tipi di evento. Considero questa una delle fortune maggiori che mi siano capitate, e sono lieto di non ricordare una quantità impressionante di cose.

Esagerazioni assortite

Sulla base degli argomenti appena presentati, le osservazioni di Ferraris sul rapporto tra atti sociali e iscrizioni mi sembrano in buona parte sbagliate. Va però detto che il libro seppellisce anche le osservazioni corrette sotto uno strato di esagerazioni e deduzioni prive di fondamento. La fusione tra “iscrizioni” mentali e iscrizioni nel mondo esterno porta per esempio Ferraris a marginalizzare (non a cancellare, per fortuna: qualche distinguo viene introdotto qua e là) le differenze tra i due tipi di scrittura, quando invece è proprio lì che sta buona parte dell’interesse...

Più radicalmente, in alcuni casi Ferraris parte proprio per la tangente. Per esempio, a partire da p. 285, incomincia a parlare dell’Unione Europea come di un organismo sociale che trae la propria origine “esclusivamente da documenti”... prego? Né si tratta di una svista, perché il libro va avanti per diverse pagine a parlare di questa caratteristica e a usarla per differenziare l’UE dagli stati “nati sulla base di trattati”, sostenendo che nel suo caso non ci sono state “guerre di indipendenza o di espansione”, ma tutto si è svolto su base “puramente documentaria”.

Non mi è affatto chiaro in che senso, per esempio, ci sia differenza da questo punto di vista tra la formazione dell’UE e quella del Regno unito di Inghilterra e Scozia, o quella della Yugoslavia, eccetera eccetera. Il continente non è stato affatto “unificato dai documenti” (p. 286): è stato unificato, sia pure solo a certi livelli, dal desiderio di buona parte dei suoi abitanti (élite, borghesia, masse popolari) di finirla con le guerre e costruire una struttura in grado di affrontare meglio la realtà del ventesimo secolo e, auspicabilmente, del ventunesimo.

Insomma, è un peccato che tanta energia mentale sia stata spesa per sostenere assurdità e sofismi. Il rapporto tra società e scrittura è affascinante, ma il modo in cui viene affrontato qui è spesso caricaturale.

venerdì 25 novembre 2011

I nomi nella narrativa di Philip K. Dick


Domani mattina (sabato 26 novembre 2011) alle 9.20 parlerò durante il XVI Convegno di onomastica letteraria. Il mio intervento è dedicato a “Creazione di nomi e creazione di parole nell’opera di Philip K. Dick”. I lavori si svolgeranno nell’Aula magna di Palazzo Boileau, sede della Facoltà di Lingue, a Pisa.

Tra i punti presentati, la risposta a qualche angosciosa domanda: perché Dick in The man in the high castle parlava del maggiore “Ricardo” Pardi? E perché pensava che le scatolette di razioni italiane AM durante la campagna in Nordafrica venissero chiamate “Asino Morte”?

mercoledì 23 novembre 2011

Italiano che vale un terzo


Le ultime “riforme” universitarie dovrebbero cambiare il modo in cui l’università italiana assumerà i nuovi docenti. Non si faranno più ricercatori a tempo indeterminato (come me), e per diventare professori associati oppure ordinari sarà necessario avere prima un’abilitazione nazionale e poi vincere un concorso locale.

In questo, a livello generale, non c’è nulla di particolarmente nuovo: i fattori principali che determinano la carriera dei docenti saranno, come in passato, la quantità di soldi di cui l’università dispone e il tipo di lavoro offerto alle persone che potrebbero essere interessate a insegnare lì. Il resto sono dettagli... ma è anche vero che a volte il diavolo è nei dettagli, e che alcune caratteristiche del prossimo concorso nazionale sono come minimo sorprendenti.

Chi scriverà le regole per il concorso di abilitazione dei futuri docenti? La legge fornisce solo indicazioni generiche, da determinare con un regolamento successivo. In questi giorni circola in effetti una bozza di Decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca che presenta appunto un “Regolamento recante criteri e parametri per la valutazione dei candidati ai fini dell’attribuzione dell’abilitazione scientifica nazionale per l’accesso alla prima e alla seconda fascia dei professori universitari, ai sensi dell’articolo 16, comma 3, lettere a), b) e c) della legge 30 dicembre 2010, n. 240”. La bozza di decreto non sembra pubblicata ufficialmente, ma diversi organismi l’hanno discussa e presentata in tutto o in parte; io l’ho letta in una versione presentata sul sito della Rete 29 aprile.

Ora, come rileva esplicitamente il Consiglio Universitario Nazionale nel suo parere del 19 ottobre (parte prima, punto 3), per quanto riguarda la valutazione scientifica delle pubblicazioni la bozza corrente attribuisce in sostanza il potere di fissare i parametri di valutazione all’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR). La base di partenza della valutazione sarà quindi verosimilmente costituita dai parametri che l’ANVUR ha presentato come proposta di lavoro nel suo documento 1/2011, modificati con le osservazioni contenute nel documento 2/2011 (pubblicato il 25 luglio).

L’assieme dei due documenti ANVUR fornisce indicazioni in parte condivisibili, in parte sorprendenti. L’ANVUR divide la ricerca universitaria in due grandi aree, a seconda che siano disponibili o meno indicatori bibliometrici consolidati (quelli che stabiliscono il “valore” di una pubblicazione su determinate riviste, l’importanza del numero di citazioni che ha avuto un articolo, eccetera). Si può discutere sui parametri esatti, e alcune scelte dell’ANVUR sono state criticate appunto in quest’ottica, oltre che in alcune scelte di fondo, ma come minimo si può dire che criteri del genere si fondano su prassi condivise dalla comunità dei ricercatori.

In molte aree di ricerca, però, gli indicatori bibliometrici non esistono: è il caso, in sostanza, di tutta la ricerca umanistica. Gli addetti ai lavori sanno bene quali sono le sedi di pubblicazione più selettive e prestigiose, e quali no, ma non c’è una gerarchia rigida e pubblica paragonabile a quella presente, per esempio, nella biologia molecolare. Di conseguenza, o si mette in piedi un sistema di valutazione internazionale anche per questi settori – cosa decisamente fuori portata – oppure bisogna rassegnarsi... o no? L’ANVUR, davanti al problema, ha fatto una scelta sbagliata: ha proposto per tutta quest’area di usare indicatori inventati e approssimativi, sia pure sottolineandone i limiti e auspicandone l’uso nella sola “prima tornata di abilitazioni”. Vedere per credere. Nel documento 1/2011 si propone di valutare le pubblicazioni dell’area innanzitutto secondo il loro numero (punto 5, parametro 2):


il parametro è il numero di pubblicazioni (esclusi gli atti dei congressi) negli ultimi 10 anni, ponderato per tenere conto del diverso impegno nella produzione di monografie e articoli e delle differenze di diffusione tra lavori pubblicati all’estero o in Italia.

Per la ponderazione viene poi proposto questo schema:

- monografia pubblicata da editore internazionale (autore o coautore) : peso 3
- articolo pubblicato su rivista internazionale (ISI o Scopus) : peso 1,5
- curatela di volumi pubblicati da editori internazionali : peso 1,2
- monografia pubblicata da editore nazionale: peso 1
- articoli pubblicati su riviste nazionali: peso 0,5
- articoli pubblicati su riviste internazionali non ISI o Scopus: peso 0,5
- articoli o capitoli pubblicati su volumi nazionali: peso 0,5.

In sostanza, per incredibile che possa sembrare, un’agenzia di valutazione propone di misurare metà delle ricerca universitaria italiana mettendo tutte le pubblicazioni di uno stesso tipo allo stesso livello, senza badare al fatto che un libro può essere un’opera geniale e un altro una farneticazione pubblicata a spese dell’autore. Inoltre, cosa altrettanto incredibile, dice che se un lavoro è stato pubblicato da un editore italiano vale tre volte di meno rispetto a un qualunque lavoro dello stesso tipo pubblicato da un qualunque editore straniero!

Le cose peggiorano ulteriormente nel documento 2/2011 che, intervenendo al punto 3 sull’appena citato punto 5 del primo documento, propone che a essere penalizzati non siano più i lavori pubblicati da “editori nazionali”, ma quelli presentati “in italiano”, contrapposti a quelli “in lingua diversa dall’italiano”. Letteralmente: in questo schema, qualunque lavoro in italiano vale perciò stesso tre volte di meno di un qualunque lavoro equivalente pubblicato in qualunque altra lingua (inglese, ungherese, cantonese...).

Dire, come fa l’ANVUR, che questo modo di procedere ha dei “limiti” è un eufemismo non da poco. A occhio, la cancellazione totale della ponderazione produrrebbe probabilmente meno assurdità e distorsioni rispetto a una scelta del genere.

Com’è possibile che un’agenzia di valutazione proponga una scelta così bislacca? Le motivazioni esplicite addotte sono queste quattro:

(a) un volume pubblicato all’estero, in lingua diversa dalla lingua madre (italiano) comporta di norma uno sforzo maggiore per l’autore rispetto ad un volume in italiano;
(b) esso è stato sottoposto ad una selezione che inevitabilmente si è basata su una competizione più ampia e più severa, in quanto per definizione più numerosi sono i concorrenti
(c) esso raggiunge grazie alla distribuzione nei canali internazionali una platea più vasta di lettori ed utilizzatori, realizzando in questo modo un ampliamento della comunicazione scientifica (che è un valore in sé), una maggiore visibilità della ricerca italiana nel mondo, ma anche un impatto più incisivo della spesa pubblica in ricerca
(d) qualora si tratti della traduzione in lingua estera di un precedente lavoro in lingua italiana, essa testimonia del riconoscimento internazionale del lavoro dell’autore (in questo caso andrebbe conteggiato solo il lavoro originale o la traduzione, non entrambi).

Alcune di queste motivazioni rasentano la follia. Per esempio, che senso ha (punto a) valutare lo “sforzo” compiuto da un autore? La ricerca scientifica non è un compitino di scuola elementare, in cui l’insegnante può dire “d’accordo, non ce l’ha fatta, ma si è impegnato molto...”. Nella ricerca contano solo i risultati, non il fatto che arrivarci sia stato faticoso – e, ancor peggio, artificiosamente faticoso. Il punto (b) e il punto (c) si basano invece su una valutazione del pubblico che per molti settori è tutta da dimostrare. Io mi occupo di linguistica italiana: chi si interessa a questo argomento sa quasi inevitabilmente leggere l’italiano, ed è molto probabile che una pubblicazione in inglese tagli fuori, in Italia, un numero di potenziali interessati pari o superiore rispetto a quello che si guadagna all’estero. E di sicuro, dal punto di vista della produzione, gli studiosi di linguistica italiana capaci di scrivere con agio in inglese sono meno numerosi di quelli capaci di scrivere in italiano...

Va sottolineato poi che l’ANVUR parla pudicamente di “lingua diversa dall’italiano”, ma pensa in realtà al solo inglese. Che senso avrebbero i criteri di “ampiezza del pubblico” per una pubblicazione scritta, per esempio, in svedese?

Insomma: nella comunicazione scientifica fare una graduatoria a priori delle lingue ha ben poco senso. Ogni ricercatore desidera che il proprio lavoro sia conosciuto dalle persone interessate, e si regola di conseguenza, sulla base delle proprie capacità. In alcuni settori, se si vuole diffondere il proprio lavoro, bisogna scrivere in inglese. In altri, semplicemente, no. Stabilire a priori che certe lingue sono inferiori rispetto alle altre... anzi, che una lingua è inferiore rispetto alle altre... non ha alcun senso scientifico. Potrebbe essere un atto di politica della ricerca, ma è difficile immaginarsi che se per esempio la linguistica italiana si mettesse a pubblicare solo in inglese, i suoi risultati migliorerebbero o sarebbero più noti all’estero (verosimilmente, avremmo articoli in inglese scritti peggio rispetto agli equivalenti italiani, grazie al famoso “sforzo”).

Dopodomani ci sarà l’assemblea dell’Associazione per la Storia della lingua italiana, cui appartengo anch’io, e spero ci sia occasione di presentare come minimo una forte mozione contro una proposta tanto assurda.

lunedì 21 novembre 2011

Ferraris e le lingue della Tasmania

Fanny Cochrane Smith registra il tasmaniano

Già l’anno scorso avevo accennato al libro Documentalità di Maurizio Ferraris. Negli ultimi mesi l’ho letto, e, come temevo, non ne sono rimasto affatto convinto. Ferraris centra un punto importantissimo e sfuggito a molti altri (la continuità tra la “scrittura” di una lingua articolata e altre pratiche, come già notato da Derrida e da Roy Harris), presenta alcune intuizioni interessanti e si avvicina, senza però raggiungerla, a una nozione fondamentale per questo genere di studi: quella di informazione. Però l’idea chiave del libro è del tutto sbagliata, così come sono sbagliate moltissime osservazioni puntuali. La situazione è tale che il testo, pur essendo uno studio corposo pubblicato con evidenza da un competente autore italiano, può essere usato come spunto di discussione e poco altro.

Rimandando ad altra occasione la critica sul punto centrale, per me è poi interessante notare che i problemi di sostanza sono verosimilmente collegati a problemi di forma. La scrittura di Ferraris è vivace e brillante, ma in un libro del genere la cosa non aiuta, anzi, confonde. Almeno nella mia esperienza, una scrittura così è utile per chiarire qualche punto in un articolo da giornale rivolto a un pubblico distratto (arte in cui Ferraris eccelle), ma non per un libro. Nel caso del libro, chi legge si è di solito già concentrato sull’argomento, e le battutine a lato o le semplici digressioni devono essere usate con molta parsimonia, perché distraggono da un ragionamento complesso. Né la distrazione riguarda solo il lettore, ma anche l’autore; la cui energia, almeno in questo caso, sembra andata nelle digressioni, più che nello sviluppo del punto centrale. Al punto che gli argomenti presentati nel libro sono spesso affrontati ed esposti con sorprendente approssimazione (più da articolo di giornale, appunto, che da libro di ricerca).

Certo, in alcuni casi, gli errori – pur frequenti e vistosi – non hanno un grande impatto sul libro. Ferraris parla per esempio degli eschimesi come di “europei”, e lo fa per ben tre volte (pp. 290, 293 e 295), commentando un passo di Husserl di cui evidentemente non ha afferrato tutto il senso. In realtà, com’è noto, in Europa non ci sono popolazioni eschimesi, né gli eschimesi sono “cittadini norvegesi o finlandesi” come crede Ferraris. Poco male: l’autore ha confuso eschimesi e sami, o “lapponi”, ma il suo libro non è un trattato di etnografia scandinava, e a questo genere di sviste, per quanto fastidiose, si può passare sopra.

Più inquietante è la confusione terminologica e di sostanza su argomenti che si dovrebbero trovare al centro del discorso. Faccio solo qualche esempio tra le (letteralmente!) decine di casi possibili. Alle pp. 237-238, Ferraris scrive:

… la praticità (o essenzialità) dell’alfabeto risulta pesantemente contraddetta dalla circostanza per cui le nostre scritture rigurgitano di ideogrammi, che non sono solo gli elementi sintattici, ma, ad esempio, i numeri, con i quali ci troviamo benissimo, tanto quanto invece si trovavano male i latini, la cui numerazione aveva elementi alfabetici. Basterà comunque guardare la tastiera di un computer, ossia di una macchina per scrivere una scrittura che si suppone alfabetica, per vedere quanti ideogrammi possieda: | \ ! “ £ $ % & / ( ) = ? ^ 1 2 3 4 5 6 7 8 9 0 [ + *] @ ° # § > < ; , : . _ -. Sono 40 ideogrammi. E vi ho risparmiato i simboli per far andare avanti e indietro il dvd o alzare il volume (che non servono per scrivere), così come tutto ciò che posso ottenere dal “menù simboli”.

Il concetto base è abbastanza corretto, sulla scia di discorsi fatti da tempo da Roy Harris, ma queste poche righe sono talmente piene di errori che è possibile commentarne solo una parte. In che senso, per esempio, Ferraris parla di “ideogrammi”? In italiano, la parola “ideogramma” indica un segno “che corrisponde a un’idea o a un oggetto”, come dice il dizionario Zingarelli; né le parentesi quadre né i punti esclamativi sono quindi “ideogrammi” (lo sono invece le cifre arabe e gli operatori matematici). E in che senso gli ideogrammi “non sono solo gli elementi sintattici”? Questa osservazione è, semplicemente, priva di significato, ed è inutile andare a speculare troppo su che cosa intenda Ferraris per “elementi sintattici”. Forse pensa alle “parole”, e d’altra parte, in tutto il testo, i caratteri del cinese (logografici e morfografici) sono coerentemente chiamati “ideogrammi”... La confusione tra “simboli”, “immagini” e “ideogrammi” è costante in tutto il libro, il che inquieta non poco in un’opera che è dedicata esattamente a questioni di “scrittura”, sia pure in senso ampio.

Andando ancora a caso: tra le pp. 239 e 241 Ferraris parla delle origini del linguaggio. Su questo impegnativo argomento, anzi, propone anche una propria “ipotesi alternativa”. Ovviamente, chiunque può speculare quanto vuole sulle origini del linguaggio e proporre ogni possibile ipotesi, seria o meno, ma nel caso di Ferraris la “proposta” poggia su una base talmente debole che non si riesce a capire neanche a che cosa si riferisca, esattamente. In quelle pagine infatti Ferraris parla di “linguaggio” in modo estremamente confuso, al punto che i “gesti” vengono da lui presentati a volte come “linguaggio”, a volte come una cosa diversa dal linguaggio e, anzi, a esso contrapposta. Il problema sta ovviamente nel fatto che i non linguisti chiamano correntemente “linguaggio” oggetti molto diversi tra di loro (dal “linguaggio dei sorrisi” alla lingua articolata); però, appunto, chiunque si interessi a questo argomento dovrebbe rendersi conto del fatto che le due cose sono completamente diverse, e che il “linguaggio articolato”, espresso con parole o con gesti, è ben diverso dagli altri repertori di segni – e, contrariamente a quel che crede Ferraris (p. 241), oggi la maggior parte degli addetti ai lavori ritiene che sia biologicamente predeterminato. A che cosa si riferisce quindi Ferraris quando presenta la sua ipotesi sull’“origine del linguaggio”? Presumibilmente al linguaggio articolato verbale; ma allora che senso ha occuparsene, se il linguaggio articolato verbale è solo un caso particolare tra altri tipi di “linguaggio a tutto tondo”? L’origine del linguaggio articolato verbale coincide con l’origine del linguaggio o no?

Inutile moltiplicare gli esempi di questa disinvoltura: sono innumerevoli, e ognuno dovrebbe essere commentato a parte. Se avrò un po’ di tempo, nei prossimi giorni spero invece di riuscire a parlare del nucleo del libro, che è ovviamente la cosa su cui c’è più da dire, e che è purtroppo trattata con la stessa leggerezza. Per dare un’idea della situazione complessiva, basterà aggiungere che le tre pagine già citate sulle origini del linguaggio (239-241) concentrano una quantità incredibile di informazioni imprecise o sbagliate, estratte da un numero sorprendente di aree disciplinari. Per esempio, dalla zoologia e dall’archeologia:

  • “i primati, per via di una laringe inadatta, non sono capaci di parlare, ma sicuramente sono capaci di scrivere, nel senso che possiedono l’opposizione del pollice”... beh, alcuni primati, non tutti (e alcuni animali che non sono primati).
  • “nel paleolitico inferiore (…) abbiamo delle pietre non lavorate, ma disposte e radunate in modo significativo”... in che senso? Il paleolitico inizia con la lavorazione delle pietre!
L’osservazione più curiosa dal mio punto di vista è però questa:

In particolare, mi sembra molto plausibile la tesi secondo cui la nascita del linguaggio [presumibilmente: il linguaggio parlato articolato] ha un inizio preciso, il sorgere dell’agricoltura e la necessità di trasmettere le tecniche e i tempi da una generazione all’altra.

Ora, nessun linguista moderno, che io sappia, sostiene una data così tarda: i ritrovamenti più antichi riconducibili all’agricoltura risalgono, al più tardi, a 11.000 anni fa, e tutte le date proposte per l’origine del linguaggio parlato sono più antiche. Infatti la fonte di Ferraris non è uno specialista di questo argomento, ma un non specialista collocato ai confini della pseudoscienza, Julian Jaynes, noto soprattutto per le sue tesi sulla “mente bicamerale”.

Però, a volte perfino la pseudoscienza può essere ispirata. Che argomenti abbiamo per sostenere che gli esseri umani parlassero già 12.000 anni fa, in modo indipendente dall’agricoltura? Il linguaggio non lascia tracce fossili. E allora?

Salta fuori che un argomento ce l’abbiamo. Se il linguaggio fosse dipendente dall’agricoltura, le popolazioni non agricole non dovrebbero averlo, giusto? E ancora oggi esistono al mondo molte popolazioni di cacciatori-raccoglitori, tutte, a quel che ne sappiamo, dotate di linguaggio al pari di qualunque popolazione “agricola”.

Facendo gli avvocati del diavolo, si può a questo punto tirare fuori un controargomento: sì, vabbè, magari hanno adottato il linguaggio ma non l’hanno inventato, e si sono limitate a riprenderlo dalle popolazioni agricole, attraverso qualche contatto successivo. Ipotesi poco credibile, soprattutto visto che questa ripresa dovrebbe essersi prodotta sistematicamente e senza eccezioni in tutte le parti del mondo. Ma possiamo dire con certezza che le cose non sono andate in questo modo? Per farlo, dovremmo trovare una popolazione che sia rimasta fuori da ogni contatto con il resto dell’umanità per gli ultimi undicimila anni.

Cercando, salta fuori che, per quanto suoni incredibile, questo abissale isolamento sembra essersi prodotto in almeno un caso: quello della Tasmania. L’innalzamento del livello dei mari al termine dell’ultima era glaciale separò infatti la Tasmania infatti dal resto dell’Australia in un periodo oggi stimato tra gli otto e i diecimila anni fa, più o meno quando in Medio Oriente l’agricoltura muoveva i primi passi. Dopo quella data i residenti della Tasmania non solo non importarono l’agricoltura né la svilupparono per conto loro, ma rimasero tagliati fuori da ogni sviluppo tecnico o culturale nel resto del mondo – apparentemente perché nessuno attraversò mai lo Stretto di Bass, che li separava dal continente. Di sicuro, sull’isola non furono importate “innovazioni” australiane come il dingo e il boomerang, anzi, alcune delle tecniche neolitiche che inizialmente i tasmaniani possedevano vennero abbandonate durante i millenni, caso illustrato in particolare nei lavori di Jared Diamond.

Nonostante questa situazione, quando nel 1772 ci fu il primo contatto con gli europei, i tasmaniani avevano già un linguaggio. Il tempo per documentarlo fu peraltro poco. Nel 1803 fu stabilito il primo insediamento inglese sull’isola, e trent’anni dopo i tasmaniani (forse 15.000 all’inizio del secolo) erano in pratica estinti: in buona parte per epidemie, e per il resto per il conflitto con i coloni. L’ultima tasmaniana purosangue e l’ultima persona in grado di parlare il tasmaniano, Fanny Cochrane Smith, morì nel 1905 – e gli antropologi fecero in tempo, tardivamente, a farle registrare alcune canzoni tasmaniane su un fonografo Edison, come si vede nella foto ripresa in apertura di post: ultimo atto di cento secoli di sviluppo linguistico indipendente. Quelle registrazioni e le altre testimonianze rimaste sul tasmaniano non permettono nemmeno di stabilire con sicurezza i rapporti genealogici tra questa lingua e le altre lingue parlate in Oceania, ma di sicuro una lingua c’era, e non somigliava né a quelle delle popolazioni australiane più vicine né a quelle europee.

Sintesi: no, non sembra che il linguaggio si sia sviluppato grazie all’agricoltura. O perlomeno, non c’è alcun indizio in questa direzione, e ce ne sono invece molti (diffusione universale e indipendenza dai contatti con popolazioni agricole) che vanno in direzione opposta.


sabato 19 novembre 2011

Opuscolo ICoN

Logo ICoN

Un aggiornamento sul mio lavoro per il Consorzio ICoN... Da pochi giorni abbiamo realizzato un opuscolo su carta di 16 pagine con la presentazione di tutte le attività in corso. Il testo stampato lo stiamo distribuendo in questi giorni, il PDF è già disponibile e scaricabile sul sito (sono 5,2 MB: pesantuccio, ma è lo svantaggio di questo genere di prodotti).

Devo dire che vedere il prodotto finito su carta e tenerlo in mano, in blocco unico, dà una sensazione strana - del tipo: Accidenti! Quante cose stiamo facendo... Mettiamo anche questo genere di sensazioni tra i vantaggi (o perlomeno, le diversità) della carta rispetto ai mezzi di comunicazione elettronica.

giovedì 17 novembre 2011

Cerruti e Cini, Introduzione elementare alla scrittura accademica

Cerruti e Cini, Introduzione elementare alla scrittura accademica

Sono alla continua ricerca di libri da inserire nel mio Laboratorio di scrittura, e a questo fine negli ultimi giorni mi sono letto l’Introduzione elementare alla scrittura accademica di Massimo Cerruti e Monica Cini (Roma-Bari, Laterza, 2007, ISBN 978-88-420-8182-1; l’editore mi ha gentilmente spedito una copia della quarta edizione, 2011, pp. 148, 16 €).

In sintesi: il libro è diligente e funzionale, come appoggio a un corso. Il titolo è però piuttosto fuorviante (o forse no, per i motivi che presenterò tra poco...). Infatti, l’unico tipo di “scrittura accademica” presentato è quello della tesi di laurea. È vero che le indicazioni fornite per la tesi di laurea valgono anche per altri tipi di scrittura; ciò però non significa che il discorso si esaurisca lì. Cosa ancora più sorprendente, il manuale presenta i “Generi della scrittura accademica” alle pp. 20-21, ma nella pagina e mezzo dedicata all’argomento si menzionano solo, in aggiunta alla tesi di laurea, “il manuale, la monografia e l’articolo scientifico”. Dopodiché, il discorso si chiude e si passa a trattare della sola tesi di laurea – e anche di questa, in modo molto sommario. Nella struttura del libro, addirittura, si intitola “La tesi di laurea” un paragrafo, il 2.2, che in realtà parla di ricerca di fonti bibliografiche in generale!

Se si dà per scontato che il libro non contenga indicazioni utili a scrivere diversi tipi di testo, comunque, i contenuti sono a posto. Il prodotto finito si avvicina poi molto allo standard del “come si fa una tesi di laurea”, che ovviamente ha nel libro di Eco il capostipite; perfino io ho scritto una metà di un manuale di questo tipo – anche se orientato allo studio più che alla scrittura – e prima o poi dovrò comunque riaggiornare la guida pratica preparata per gli studenti della triennale di Informatica umanistica.

Più in dettaglio, colpisce il fatto che quasi un terzo della lunghezza totale del libro (pp. 97-141) sia poi occupata da indicazioni sulla formattazione e sul modo per scrivere rinvii bibliografici. Il che è forse eccessivo, o meglio: il livello di dettaglio è secondo me non ottimale, visto che è un po’ troppo minuzioso per una guida rapida, ma non abbastanza minuzioso da esaurire l’argomento. Il modo più sensato per gestire i rinvii bibliografici mi sembra invece trattare rapidamente i casi più comuni e rinviare per ogni caso più specifico al Nuovo manuale di stile di Roberto Lesina o a eventuali guide disciplinari. Tuttavia le osservazioni date su altri aspetti mi sono sembrate competenti e adatte all’uso didattico.

Resta poi il fatto, tornando al discorso di partenza, che questo libro è un’altra testimonianza di quanto sia difficile per l’università italiana concepire l’esercizio della scrittura prima della tesi. Della relazione, della sintesi o del saggio “da venti pagine” di cui ho già parlato non si trova traccia. Il che è strano, visto che il manuale viene presentato in quarta di copertina come una guida “fondata sulle esperienze dirette dei laboratori di scrittura”. Del resto, se gli studenti italiani non fanno “scrittura accademica” se non al momento di scrivere la tesi, a che cosa servirebbe presentare regole per altri tipi di testo?

mercoledì 16 novembre 2011

Altro giornalismo di seconda mano: Visetti "a" Shanghai

Un appunto al volo: stamattina, facendo colazione con l’iPad di fronte, ho notato sulla home page di Repubblica un altro articolo del loro “corrispondente” dalla Cina Giampaolo Visetti. Il titolo è il solito indecoroso titolo italiano: In Cina troppi cuori solitari: ecco la fiera per la caccia al partner. In quanto al contenuto... basta inserire su Google i nomi degli intervistati per trovare la fonte da cui, di nuovo, Visetti ha copiato tutte le informazioni presenti nell’articolo (senza ovviamente dire che le ha copiate): ancora il Guardian di Manchester, con un articolo pubblicato domenica. E, ancora una volta, ha manipolato abbondantemente le fonti, inventando – con ogni evidenza – tutti i dati nuovi.

Per esempio, il nome “Damon Tu” compare sia nell’articolo del Guardian sia in quello di Repubblica, ma nel primo è riferito a un “media advertising sales manager from Shanghai”, mentre nel secondo è riferito a un annuncio che parla di “Quarantenne dello Shandong, impiego fisso, 14mila yuan mese (1400 euro ndr), appartamento e auto, amante shopping”. Huang Yushu è una traduttrice ventinovenne nel primo caso, una commessa ventunenne nel secondo... Ma le fonti divergono molto anche sul numero dei partecipanti (il Guardian dice che le stime variano da dieci a quarantamila; secondo Visetti sono stati mezzo milione!), eccetera.

È poi quasi superfluo dire che mentre il primo articolo è una ragionata e intelligente presentazione di informazioni, il secondo è una serie di luoghi comuni da temino di seconda liceo. Vale la pena citare la frase conclusiva: “Donne in cerca di anziani sempre più ricchi e uomini attratti da povere sempre più giovani: la nuova superpotenza del mondo, dimenticato il socialismo, si scopre disperatamente sterile e sola, come un qualsiasi capitalismo dell'Occidente sul viale del tramonto”.

Tutto qui? Beh, no, perché questo genere di invenzione a volte fa danni mostruosi. Per esempio, ho appena scoperto che Visetti è stato uno dei giornalisti che, dopo lo tsunami, hanno fatto un esemplare lavoro di disinformazione. Nel caso specifico, Visetti ha contribuito al mito della “Tokyo deserta”... vedere per credere.

Insomma, buona pausa caffè a tutti, e buone letture di prima mano!

lunedì 14 novembre 2011

In ufficio con lo scanner

Lo scanner in azione

A volte succede: quest’anno i miei fondi di ricerca sono stati sufficienti a permettermi di rinnovare le attrezzature elettroniche per l’ufficio. Uno dei modi in cui ne ho approfittato è stato l’acquisto di uno scanner SnapScan Fujitsu 1500.

La logica dietro all’acquisto è stata molto semplice. Come tutti, ho il problema dello spazio – con gli anni, si accumula una quantità impressionante di documenti e di materiali su carta. Alcune cose vanno conservate per motivi burocratici. Altre, e sono di gran lunga le più numerose, perché “potrebbero sempre servire”. In fin dei conti, niente di più antipatico che far fuori tutte le carte dell’anno precedente per poi accorgersi che uno dei fogli sarebbe stato utile...

Esattamente questo genere di problemi è stato descritto in un libro fondamentale, The myth of the paperless office di Sellen e Harper (ne parlerò, spero, in uno dei prossimi post). E devo dire che mi era sempre sembrata promettente una soluzione ragionevole individuata lì: carta per i “lavori in corso”, formato elettronico per l’archiviazione, e rapida ripulitura degli archivi fisici. Dopodiché, avendo fatto un po’ di ricerche in rete, ho scelto lo SnapScan per vari motivi:

  • a differenza dei classici scanner con piano di scansione, permette di caricare in un colpo solo dei discreti pacchetti di fogli (beh, solo una ventina alla volta, nella mia esperienza, ma il numero si è rivelato adeguato...)
  • riprende testi e immagini su entrambi i lati di un foglio, ignorando in automatico le pagine bianche
  • fa un discreto riconoscimento del testo attraverso la lettura ottica
  • è accompagnato da una licenza piena di Acrobat per la creazione e la modifica di Pdf indicizzati

Unico difetto, non funziona su Linux (perlomeno, non in accompagnamento ad Acrobat); il che mi costringe a mantenere sul mio portatile anche un vecchio Vista, che del resto serve anche per altri programmi. Ma per fortuna, non è necessario fare scansioni del genere tutti i giorni.

Conseguenza: nelle ultime settimane ho passato un po’ di ore a riordinare gli archivi. Esattamente come visto in altre situazioni da Sellen e Harper, mi sono accorto che in molti casi non c’era necessità di tenere nulla, e ho spedito qualche miriagrammo di carta direttamente nel riciclaggio. Altra roba (una minoranza) è invece passata prima dallo scanner. Gli scaffali alle mie spalle sono molto più ordinati, permettono di recuperare più in fretta le cose necessarie, e non penso di aver perso nulla. In nessun caso ho sentito la mancanza di quello che eliminavo, e, razionalmente, sospetto che non la sentirò mai. Tutto sommato, un ottimo investimento per la produttività.

sabato 5 novembre 2011

Bok, Our underachieving colleges


Quest’estate, in Italia, sembra che molti addetti ai lavori abbiano letto la traduzione di un fortunato libretto di Martha Nussbaum: Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Bologna, il Mulino, 2011. Libretto modesto, che dice alcune cose giuste ma, essendo poco documentato e pieno di affermazioni esagerate, è adatto alle chiacchiere da giornale e a poco altro.

Io invece mi sono letto nello stesso periodo un altro libro americano, che affronta lo stesso problema e giunge in alcuni punti a conclusioni simili, ma è molto più solido, documentato e ragionevole: Our underachieving colleges. A candid look at how much students learn and why they should be learning more di Derek Bok (Princeton, Princeton University Press, nuova edizione, 2007; io l’ho letto nella versione Kindle che indica come “Page Numbers Source ISBN” 0691136181). Lo spessore dei due testi è ben diverso – e anche per questo non credo che vedremo tanto presto in italiano quello di Bok. Che non è un’opera di genio, o un libro che segna una nuova epoca, ma semplicemente una presentazione di buon senso di cose su cui di solito, più che ragionare, si sragiona.

A questo libro sono arrivato, a dire il vero, un po’ indirettamente – perché questo libro viene molto usato da Arum e Roska come base per la loro ricerca sugli esiti della formazione universitaria. Avendolo letto, devo dire che è stata una buona scelta (forse un po’ sbilanciata sulle competenze umanistiche, più che su quelle scientifiche; il che è d’altra parte un difetto di quasi tutti i testi del settore, ma pour cause). In sintesi, Bok fornisce molti dati, ma soprattutto ribadisce un’idea tradizionale americana: quella che l’università deve avere come fine comune ed essenziale il miglioramento delle competenze generali dell’individuo.

Nel libro di conseguenza si parla poco di conoscenze e capacità specifiche, anche per settori che vanno dalla medicina all’ingegneria. I capitoli centrali del lavoro sono invece dedicati a competenze molto generali. Basta vedere i titoli:

cap. 4 – Learning to communicate
cap. 5 – Learning to think
cap. 6 – Building character
cap. 7 – Preparation for citizenship
cap. 8 – Living with diversity
cap. 9 – Preparing for a global society
cap. 10 – Acquiring broader interests

Viceversa, solo un capitolo, l’undicesimo, è dedicato esplicitamente a “Preparing for a career”. Questa proporzione è sorprendente, in prospettiva italiana: da noi si dava per scontato, e per certi versi lo si dà tuttora, che tutte queste cose siano competenza dei licei (più che della scuola superiore in generale) e che l’università si rivolga solo a cittadini già maturi e formati, unicamente per insegnare una professione. Un esempio tipico di questo atteggiamento è l’opinione di Claudio Giunta di cui ho già parlato, che in sostanza consiste nel “se non hanno già avuto una buona preparazione liceale, non vengano a fare una facoltà umanistica”.

Non credo che l’atteggiamento italiano fosse valido in passato, quando all’università andava solo un’élite, e tantomeno credo che sia valido oggi, nell’epoca in cui la maggioranza degli italiani nella fascia d’età corrispondente prova ad andare all’università. Certo, il modello americano ha molti punti migliorabili... ma, anche se il confronto è difficile, mi sembra che nell’assieme i suoi risultati siano migliori di quelli italiani. Non così tanto come dicono di solito i giornali, ovviamente; ma, visto che molti di quei risultati sono ottenuti attraverso politiche che in Italia non piacciono, forse è il caso di dare un’occhiata più da vicino.

Diciamo subito che Bok è un giurista e che per vent’anni è stato “President” di Harvard. Cultura umanistica insomma, ma né lui né Arum e Roska ritengono che la cultura umanistica sia l’unica via al pensiero critico, o alla comprensione degli altri. Ritengono però che, assieme alle scienze, sia uno dei modi migliori per migliorare capacità come appunto il pensiero critico, o la comunicazione.

(A scanso di equivoci: “pensiero critico” non è il parlar male del governo, o del capitalismo, o dell’umanità, o di chi ci sta antipatico. È la capacità di comprendere e affrontare in modo intelligente le situazioni, lavorative o meno, trovando e valutando alternative, e così via. Volendo far retorica, si potrebbe dire che nel mondo del lavoro è una capacità “da dirigenti”, anche se ho idea che per fortuna quasi tutti i lavori nel settore dei servizi, a qualunque livello, sono svolti meglio quando a svolgerli c’è una persona in grado di mettersi in modo intelligente davanti ai problemi).

Le considerazioni fatte da Bok per ognuna delle capacità affrontate nei singoli capitoli seguono in sostanza uno schema comune: l’autore spiega perché la capacità descritta è un valore in sé e perché serve molto al mondo del lavoro; mostra poi che le università non stanno facendo del loro meglio per insegnarla (per una serie di motivi descritti in modo intelligente) e propone possibili soluzioni. La differenza più importante rispetto al libro di Martha Nussbaum è che ognuna di queste capacità viene discussa a fondo sulla base di molti dati e valutata criticamente, facendo osservazioni ragionevoli sulla sua importanza e sulle possibilità che l’insegnamento universitario ha di rafforzarla negli studenti.

Per dare un’idea più di dettaglio, Bok inizia nel quarto capitolo la sua rassegna di competenze indispensabili dichiarando che “Almost everyone agrees on the need to communicate effectively” (1296) e aggiungendo poco dopo che “university presidentes and their faculties have long acknowledged a responsibility to teach students to write well” (1301). Anche a livello pratico,

Employers grumble incessantly about the poor writing of the college graduates they hire, and ‘better communication skills’ regularly tops the list of improvements firms would like to see among their new employees. Entire companies have been formed to serve large corporations by improving the writing of the recent college graduates they employ (1428)

Quella in scrittura è la competenza che mi interessa di più, e mi interessano quindi molto le dinamiche che determinano risultati simili. Dato per scontato che un corso di scrittura in inglese è obbligatorio quasi ovunque fin dall’Ottocento e che “No other single course claims as large a share of the time and attention of undergraduates” (1310), Bok spiega che:

While willing to force students to take freshman composition, senior faculty have long been reluctant to teach such a course themselves. Professors in the sciences and social sciences quickly referred the task to their colleagues in the English department. Thereafter, in one college after another, the work was gradually handed down to lower and lower levels of the academic hierarchy. By the early twentieth century, senior faculty were shifting the responsibility to their younger, untenured colleagure. By the 1940s, junior faculty were passing the baton to graduate students. As freshman enrollments rose rapidly during the decades after World War II, English departments turned increasingly for their staffing needs to part-time adjunct instructors (usually would-be writers in need of income or Ph.D.s without a permanent academic job). By the 1190s, more than 95 percent of all compulsory writing classes in Ph.D.-granting English departments were taught by adjuncts or by graduate students. Only in small liberal arts colleges was it common to find such courses taught by tenured professors (1310-1318).

Dopodiché, “The problem with this solution, of course, is that the quality of instruction often suffers” (1347)...

La soluzione proposta da Bok è consequenziale e molto semplice: definire in modo chiaro gli obiettivi della didattica della scrittura, e assegnare i corsi a “full-time professionals” (1533), non a personale precario. Proposta del tutto ragionevole, condivisibile, e realisticamente capace di incidere sul problema.

Per fare un altro esempio pratico collegato alle attività di mia competenza, Bok nota quindi che gli obiettivi di “conoscenza delle altre culture” discussi nel cap. 9 sono validi ma che le richieste fatte spesso alle università in questo settore sono irrealistiche – e dedica molto spazio, non sorprendentemente, a una diplomatica stroncatura (3507-3535) delle richieste folli fatte da Martha Nussbaum (appunto...) in un suo libro del 1997, Cultivating humanity. A livello pratico, a parere di Bok anche la conoscenza delle lingue straniere è un obiettivo valido, ma il tempo a disposizione delle università per insegnarle è troppo ridotto per permettere di imparare una lingua a un minimo livello di utilità, e quindi sarebbe meglio non farne di nulla... o meglio, incoraggiare a studiare le lingue straniere, senza renderle obbligatorie (3763).

A lettura finita, l’impressione: su alcuni punti delle tesi di Bok si può avere da ridire, ma questo libro è la sintesi più documentata, argomentata e ragionata che abbia visto fino a oggi sugli obiettivi della didattica universitaria. Se esiste una sintesi migliore, sarei proprio curioso di sapere qual è.

mercoledì 2 novembre 2011

Lupia, Tavosanis e Gervasi: Editoria digitale

Lupia, Tavosanis e Gervasi, Editoria digitale
È periodo di grande fervore editoriale, evidentemente... subito dopo gli atti del convegno di Varsavia, mi sono arrivate le copie di un manuale scritto da Maria Teresa Lupia, Vincenzo Gervasi e il sottoscritto: Editoria digitale (Torino, UTET, 2011;  ISBN 978-88-6008-356-2, 160 pagine a 16 €). Il mio giudizio è ovviamente un filino parziale, ma mi sembra un manuale interessante e con molte possibilità. L’idea è stata quella di trattare sotto l’etichetta di “editoria digitale” tutta l’ampia fascia che parte da Word, passa dall’impaginazione di relazioncine e materiali vari a uso interno degli uffici e arriva ai prodotti professionali, con una destinazione che a volte è la stampa su carta, a volte il semplice file o gruppo di file, e a volte una mescolanza tra le due.

Il taglio combina informazioni teoriche e istruzioni pratiche. Al lettore viene quindi spiegata per esempio la distinzione tra linguaggi procedurali e dichiarativi (in modo rigoroso, grazie agli interventi di Vincenzo), ma vengono fornite anche le indicazioni sui menu e i comandi necessari a ottenere determinati risultati con determinati programmi. L’idea è che i due livelli, per un lavoro del genere, debbano andare necessariamente a braccetto: un manuale puramente teorico lascerebbe molti lettori perplessi davanti agli strumenti, un manuale puramente pratico non permetterebbe di capire le ragioni dietro a soluzioni complesse.

Un’altra scelta importante del lavoro è consistita nel descrivere unicamente  strumenti open source. In particolare, il Writer di OpenOffice (non essendo ancora avvenuto, al momento della stesura, il passaggio a Libre), Scribus, Calibre e Gimp. Strumenti, quindi, che non solo permettono di ottenere risultati professionali, ma che possono essere usati senza pagare licenze, pur avendo funzioni e comandi in larga misura sovrapponibili a quelle dei prodotti a pagamento. Tra parentesi, anch’io li uso ormai tutti da anni, senza sentire minimamente la mancanza dei prodotti Microsoft o assimilabili.

Il manuale è pensato per un pubblico di esordienti – in particolare, studenti che si devono trovare a fare i conti per la prima volta con strumenti e problemi editoriali. L’ultimo capitolo, tuttavia, dovrebbe aprire le strade agli approfondimenti, visto che è dedicato a una primissima introduzione a Xml e alla codifica dei testi in quest’ottica (ovviamente puntando molto allo standard TEI). Da lì in poi, si apre un panorama di competenze avanzate che dovrà essere oggetto di altri manuali... Di questo genere di insegnamenti io comunque dovrò occuparmi fin dal prossimo semestre, con il corso di Codifica dei testi che terrò per la laurea triennale in Informatica umanistica qui a Pisa.
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