mercoledì 19 ottobre 2011

Il cinese soppianterà presto l’inglese? Sì, se si legge giornalismo di seconda mano

 
Prima di parlare di Renzi e Salvi, un commento al volo a un articolo pubblicato oggi sul sito della Repubblica: Do you speak mandarino? Cinese, nuova lingua globale, a firma di Giampaolo Visetti. Le affermazioni fatte nell’articolo sono straordinarie, e tali da cambiare la visione del futuro che comunemente hanno i linguisti. Basta leggere il sottotitolo sul trionfo del cinese: “Nel 2015 diventerà l'idioma più studiato del pianeta. Ha già superato l'inglese e per i top manager è ormai indispensabile”.
 
Certo, poi a pensarci un attimo... il cinese ha già superato l’inglese? Uao. Ma allora, quale lingua deve ancora superare per diventare “l’idioma più studiato del pianeta” nel 2015? Il tagalog? Il russo? L’armeno? E davvero per i “top manager” è indispensabile? In Italia, in fin dei conti, abbiamo esempi di “top manager” che non hanno mai imparato nemmeno l’inglese e sono saldamente al loro posto...
No, il punto è che Giampaolo Visetti, pur essendo “corrispondente” da Pechino, per scrivere questo pezzo ha in buona parte copiato informazioni che erano state presentate in un ottimo articolo del Telegraphinglese alla fine di settembre, trasformandole ed esagerandole nel modo tipico del giornalismo italico di seconda mano.

Quanto è profonda la deformazione? Difficile dirlo, ma in alcuni casi sembra proprio che il testo italiano inventi liberamente sulla base di quello inglese. In diversi punti i due articoli citano dichiarazioni rilasciate dalle stesse persone, ma le battute attribuite a un certo punto del testo italiano al professor Li Quan sembrano un rimontaggio e un fraintendimento di quanto detto nel testo inglese:

"Il problema - dice il professor Li Quan - è che non c'è gara tra la passione dei cinesi che studiano inglese e quella di questi che si applicano al mandarino. Il risultato è che la Cina comprende l'Occidente, ma non viceversa. E' tempo per certificare i livelli progressivi di conoscenza del mandarino con attestati riconosciuti e da rinnovare, come avviene per l'inglese".


"There is no competition!" said Prof Li. "The passion that Chinese have for learning English is much greater. All of our exams, the university exams and the exams for professional certificates judge you on English skills. So unless the rest of the world implements an identical scheme in its schools, Chinese will never manage to penetrate as deeply."

In alcuni casi le interviste sembrano invece fatte ex novo (le battute attribuite agli intervistati sono molto diverse da quelle che si ritrovano nell’articolo del Guardian), ma lasciano diverse perplessità. Per esempio, l’articolo di Visetti riporta questa dichiarazione:

"Siamo davanti ad un'epocale rivoluzione del linguaggio umano - dice Zheng Wei, docente della facoltà di lingue di Pechino - ma le difficoltà restano: il mandarino è complicato e non è affatto scontato che chi afferma di studiarlo, riesca a impararlo".


Però nell’articolo originale Zheng Wei, che dice qualcosa di vagamente simile a quanto riportato da Visetti, non viene indicato come “docente”, ma come “an editor at Beijing Language University's publishing house” (cioè, un redattore editoriale). E quale sarebbe poi la facoltà di lingue di Pechino, città con settanta università?

Cosa ancora più allarmante, l’articolo del Guardian è una presentazione intelligente e bilanciata dello stato delle cose, e gli intervistati dicono cose di buon senso. Il professor Li Quang nel testo inglese esprime una ragionevole opinione condivisa da molti linguisti (me incluso, nel mio piccolo), e cioè che, anche se il cinese diventerà più diffuso, “it is pretty unlikely that it will really be a proper world language”.

Incredibilmente, nel testo italiano le dichiarazioni dello stesso docente, che in parte ripetono cose che compaiono anche nell’articolo inglese, sono di tenore completamente diverso:

Il risultato - dice il professor Li Quan dell'università Renmin di Pechino - è storicamente scontato. Chi domina la ricchezza, da sempre impone il linguaggio. (...) L'ascesa del mandarino e il tramonto dell'inglese sono lo specchio popolare della realtà.

Affermazioni del genere sembrano, a chi conosce un po’ di sociolinguistica, decisamente poco sostenibili (che cosa vuol dire poi che “L'ascesa del mandarino e il tramonto dell'inglese sono lo specchio popolare della realtà”?). E in generale l’articolo italiano presenta idee a cui pochi addetti ai lavori credono: che il cinese si stia diffondendo in modo significativo già oggi nel mondo, e che sia destinato a diventare presto una lingua rilevante sul piano internazionale. In realtà, solo minuscole percentuali della popolazione dei paesi occidentali lo stanno studiando – rispetto al quasi 100% dei giovani che studiano inglese – ed è molto probabile che per tutto il ventunesimo secolo i non-cinesi capaci di parlare il cinese saranno un gruppo marginale.
Per giudicare la competenza dell’autore dell’articolo in materia linguistica, infine, si legga questa frase meravigliosa:


Priva di alfabeto, organizzata per ideogrammi, la lingua comune dei cinesi obbliga a memorizzare migliaia di termini e di segni, ognuno dotato di quattro significati differenti a seconda dell'intonazione con cui viene pronunciato.

Priva di alfabeto? C’è il pinyin. Ideogrammi? sono caratteri, non ideogrammi. Obbliga a memorizzare migliaia di termini? Sì, ogni lingua lo fa, e si chiamano “parole”. Ogni “segno” è dotato di quattro significati differenti a seconda dell’intonazione? No, anzi, ogni carattere corrisponde di regola a un'unica pronuncia...
 
Aggiornamento: in seguito ho scoperto che Visetti non è nuovo a questo genere di esercizi.
 

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