domenica 30 ottobre 2011

La lingua moderna dei romanzi storici


Giusto poche settimane fa parlavo del problema della ricostruzione della lingua parlata in passato.

L'altro ieri mi è arrivata una copia degli atti del convegno di Varsavia, pubblicati con il titolo Finzione cronaca realtà. Scambi, intrecci e prospettive nella narrativa italiana contemporanea, a cura di Hanna Serkowska (Massa, Transeuropa, 2011; ISBN 978-88-7580-146-5, 25 €). All’interno c’è anche il mio contributo dedicato a La lingua moderna dei romanzi storici (pp. 335-346), che è stato il punto di partenza della discussione sulla lingua parlata in passato.

Il contributo definitivo descrive i modi attualizzati per rappresentare il linguaggio del passato in alcuni romanzi italiani contemporanei: Q, Altai e Manituana di Luther Blissett / Wu Ming, più la trilogia di Magdeburg di Alan D. Altieri (l’aspetto più vistoso di questa attualizzazione è l’ampio uso di parolacce - che però non sono certo un’invenzione moderna!). In più, in chiusura c’è un rapido confronto con la lingua di alcuni romanzi paragonabili in lingua inglese, dal ciclo 1632 di Eric Flint fino al Baroque Cycle di Neal Stephenson.

Fuori verbale, devo poi dire che alcuni di questi modi per attualizzare la lingua del passato mi convincono. I meccanismi usati in Q e, più ancora, quelli della trilogia di Magdeburg mi sembrano ben collocati nel racconto; leggendoli, non ho l’impressione di qualcosa fuori posto.  

mercoledì 26 ottobre 2011

Code lunghe e torte piccole


Dopodomani, venerdì 28 ottobre, sarò a Lucca per un’iniziativa collegata a Lucca Comics. Alle 15 parteciperò infatti a uno degli appuntamenti di Lavorare con il Fumetto: Incontri sulle professioni del fumetto (e dintorni) condotti da Andrea Plazzi .

L’argomento specifico sarà:

MERCATO – Code lunghe e torte piccole Editoria, modello “Long Tail”, presenza dell’editoria online e nicchia del fumetto.

Parlerò insieme a Francesco Varanini e spero di fare qualche confronto tra il modo in cui si distribuiscono i tratti linguistici e quello in cui si distribuiscono i prodotti editoriali.

L’appuntamento è alla Sala Incontri della Camera di Commercio di Lucca in Corte Campana, tra Palazzo Ducale e Piazza S. Michele.

sabato 22 ottobre 2011

Risposta a Claudio Giunta: no, le facoltà umanistiche hanno molti ruoli importanti

La settimana scorsa Claudio Giunta ha pubblicato sul Domenicale del Sole-24 ore un lungo articolo, ripresentato qualche giorno dopo, in versione più ampia, sul suo blog: Alcune considerazioni sulle facoltà umanistiche.

Claudio Giunta è oggi, probabilmente, la persona più intelligente che in Italia si occupi in pubblico di questi argomenti. La tesi da lui presentata nell’articolo è chiara, ragionevole e ben argomentata – e, basandosi su riflessioni già presentate nel suo bellissimo libro L’assedio del presente, ha una profondità ben diversa rispetto alle classiche tesi da giornale. Io credo però che sia anche profondamente sbagliata, sia nelle premesse sia nelle conclusioni.

Il punto di arrivo del ragionamento di Giunta viene presentato in modo diretto nelle prime righe del testo:

Dato che le facoltà umanistiche offrono pochi sbocchi lavorativi, sarebbe il caso che alle facoltà umanistiche si iscrivessero in pochi, e non in tantissimi come succede oggi.

In questa definizione c’è il nocciolo dell'errore. Giunta implica l’esistenza di un nesso rigoroso: l’iscrizione a una facoltà universitaria deve essere fatta in funzione di uno “sbocco lavorativo”. Se lo sbocco non c’è, meglio non iscriversi. Questa idea è molto comune in Italia, e in generale è molto diffusa nel mondo. Ciò non toglie che sia sbagliata, o meglio, che rappresenti solo una parte della verità (a scanso di equivoci: è giustissimo e ragionevole che la formazione universitaria presti molta attenzione agli sbocchi lavorativi!), e che la parte mancante sia tale da rendere non valido il resto del ragionamento di Giunta.

A monte, mi colpisce anche che il ragionamento presentato da Giunta sia poco documentato, e che si basi su impressioni più che su riferimenti a statistiche, anche per alcuni punti chiave; però questo è un altro discorso.

La laurea nel mondo reale
Un primo aspetto di cui tenere conto: la laurea nel mondo reale è anche il famoso “pezzo di carta”. Cioè, limitandosi al caso italiano, il pezzo di carta che, posseduto da un dipendente pubblico, spesso permette di avere un avanzamento di carriera; il cui possesso è indispensabile per presentarsi a molti concorsi (per posti più o meno temporanei); che viene valutato quando ci si presenta per molti lavori nel settore privato. Eccetera. Né questa è un’aberrazione solo italiana: negli Stati Uniti, terra di cui spesso si vanta la capacità di dare opportunità a tutti, l’istruzione universitaria viene da tempo considerata la premessa indispensabile per qualunque lavoro non meccanico. Chi non è stato all’università, si dice con un po’ (ma non troppo) di esagerazione, può fare al massimo le pulizie, o risolcare gli pneumatici.

Personalmente, credo che una situazione del genere sia aberrante. Ciò non toglie che sia reale. Né che in Italia i laureati, inclusi quelli delle facoltà umanistiche, continuino a guadagnare più di chi ha titoli di studio inferiori (anche se questi dati devono essere discussi più in dettaglio – cosa che nessuno sta facendo con un minimo di visibilità). Né che i laureati in Lettere e Filosofia abbiano, tutto sommato, una buona capacità di inserimento nel mondo del lavoro.

Certo, l’istruzione superiore ha aspetti di selezione sociale che, per quanto temo siano inevitabili, non mi piacciono affatto. Non mi piace neanche un sistema in cui il dipendente X, dotato di capacità Y, ottiene un avanzamento di carriera solo perché si è procurato il pezzo di carta Z (anche se il sistema non è privo di ragioni... e su questo, cioè sul come salvarne i lati positivi eliminando quelli negativi, ci sarebbe molto da discutere). Altri aspetti di questa situazione sembrano però decisamente più virtuosi. Per esempio, siamo sicuri che una ragazza che va a lavorare negli uffici di un’azienda vinicola non abbia alcun beneficio dal fatto di essersi laureata, poniamo, in Storia? O che avrebbe fatto un investimento migliore andando a fare lo stesso lavoro, ma al termine della scuola secondaria? O magari, dopo essersi laureata in Fisica? In altri termini: siamo sicuri che tra questo ventaglio di possibilità la laurea in Storia sia stata la scelta peggiore, anche per l’impiegata dell’azienda vinicola?

Per il resto della discussione, partirò comunque dal presupposto che l’effetto “pezzo di carta” non esista, e che gli individui, attraverso qualche magica forma di empatia, vengano perfettamente valutati a vista per ciò che sanno e per ciò che sanno fare. Quale sarebbe il posto della laurea umanistica in questo mondo di fiaba?

Competenze umanistiche
Il mondo del lavoro in Italia chiede da tempo una cosa precisa al sistema di formazione italiano: studenti con migliori competenze generali. In sostanza, più intelligenti, più capaci, più adattabili (li vorrebbe, beninteso, anche di scarse pretese economiche, pronti a spostarsi da un capo all’altro del mondo... ma, che io sappia, solo occasionalmente si chiede alle università di gestire il “ridimensionamento delle aspettative”, o cose simili). Ogni tanto arrivano richieste più specifiche, ma la verità è che non sono richiesti sistematicamente “più architetti”, o “più chimici”. In alcuni settori è indispensabile avere una laurea in una determinata materia per capire il lavoro che si andrà a fare, ma direi che l’ampia maggioranza dei lavori “da laureati” non richiede nulla del genere.

Tuttavia, non esistono, né avrebbero senso, corsi di laurea in “intelligenza” o “pensiero critico”. Né potrebbero esistere, perché queste capacità non si danno in astratto: esistono solo in quanto applicate a settori e situazioni. Laurearsi è però considerato di regola un ottimo modo per sviluppare appunto queste capacità. In fin dei conti, se nel mondo del lavoro la laurea pesa, non è solo per un capriccio della storia; è perché, secondo a un’impressione diffusa e probabilmente corretta, quando si tratta di dirigere un’azienda un laureato preso a caso è più bravo di un non-laureato preso a caso.

E per quanto riguarda il tipo di laurea? In un punto del suo intervento, Giunta dice polemicamente: “Se uno vuole andare a dirigere un’azienda studia economia, non i presocratici”. Questo non è stato affatto vero in passato, e credo che in buona parte non sia vero neanche oggi, nelle meccaniche reali con cui “si diventa dirigenti”. Giunta nota, sempre polemicamente, che in alcune valutazioni “un laureato in Filologia romanza pesa quanto un laureato in Ingegneria”; però a volte è assolutamente corretto pesare le cose in questo modo. Se è ragionevole che un’azienda di imballaggi tecnici sia diretta da un ingegnere, è tutt’altro che irragionevole che il direttore di una catena di negozi, o il direttore generale di un ministero, sia un laureato in Lettere. E, di fatto, questo avviene regolarmente, senza che ci si trovi nulla di strano... anzi, in alcuni posti sarebbe strano trovare un ingegnere. La tecnocrazia, che funziona così bene in alcuni settori, rivela drammatiche insufficienze negli altri. Non è certo un caso se al governo di quasi tutte le democrazie si trovano di regola laureati in materie umanistiche (generalmente legge o affini, ma non solo), e non ingegneri o chimici – con qualche eccezione, tipo Angela Merkel. In Italia, circa un sesto della “classe dirigente” è fatto da laureati in materie umanistiche, che sono molto meno di un sesto del totale dei laureati (Élite e classi dirigenti in Italia, a cura di Carlo Carboni, Bari, Laterza, 2007, p. 27).

Ciò non vuol dire, beninteso, che il modo migliore per “dirigere un’azienda” sia studiare i presocratici, e che studiare economia sia ininfluente; vuol dire però che per certi tipi di attività il percorso è molto, molto meno definito rispetto a quello, per esempio, in cui per progettare una nave occorre aver fatto ingegneria navale, e che le lauree umanistiche non partono affatto da una posizione di svantaggio.

Dal mio punto di vista, inoltre, non posso fare a meno di notare che le competenze umanistiche sono strettamente legate ad alcune delle capacità più richieste nelle fasce alte del mondo del lavoro: saper comunicare e, drammaticamente, saper scrivere. Su questo, c’è ben poco da fare. La formazione umanistica si basa su questo genere di competenze ed è del tutto normale che qualche anno passato a studiare libri e a parlare di libri aiuti a scrivere (con le riserve che descriverò meglio in chiusura).

In aggiunta a questo, anche il famoso “pensiero critico”. Ho già citato Academically adrift, uno studio recente di Arum e Roska sui risultati (o meglio, sui mancati risultati formativi) delle università americane; ho però solo accennato all’aspetto distributivo di questi risultati. Gli autori notano infatti che ci sono due eccezioni alla regola per cui gli studenti universitari non fanno passi avanti né nella capacità di analizzare i problemi né in quella di comunicare: le facoltà scientifiche e le “humanities”. Economia e commercio o ingegneria, al confronto, non fanno fare passi avanti, anzi, in alcuni casi alcuni tipi di capacità addirittura regrediscono, rispetto alla scuola superiore.

Certo, una laurea in Filosofia non è automaticamente una garanzia di “pensiero critico” (a vedere alcuni esempi, si sarebbe anzi tentati di supporre il contrario...). Però le facoltà umanistiche hanno in questo settore cruciale un’importanza altrettanto cruciale. Giunta scrive:

Non dubito che una persona con un’eccezionale preparazione filosofica possa diventare un grande manager, e non dubito che a un grande manager farebbe bene passare qualche ora ogni giorno a leggere Spinoza, ma lo scopo di una facoltà umanistica di massa non può essere quello di ingentilire i manager.

Vero, però non c’è contraddizione tra le due cose. La capacità di analizzare problemi e quella di comunicare in modo effettivo non sono strumenti per i manager; sono strumenti che servono anche ai manager, e che con l’attività di manager sono stati oggettivamente collegati fino a oggi.

Effetti sulla persona
La cultura umanistica ha un effetto positivo sulla persona? Anche su questo Arum e Roska hanno diverse cose da dire – in particolare, per gli aspetti sociologicamente misurabili, tipo il rapporto tra il titolo di studio e la partecipazione a organizzazioni di volontariato o l’andare a votare alle elezioni. Giunta è molto più deciso, e vale la pena qui di citare la sua descrizione per intero:

La maggior parte degli studenti seri e motivati non ha fatto ‘un buon liceo’ ma proviene da scuole nelle quali l’istruzione umanistica è più carente: gli istituti professionali, i tecnici, l’arcipelago di scuole sperimentali che le varie riforme e le varie autonomie hanno prodotto. «Ho fatto il liceo socio-psico-pedagogico», mi sento spesso dire agli esami da studenti che non sanno chi siano Weber, Freud o Rousseau, e che si sono iscritti a Lettere perché finalmente, e a buon diritto, vorrebbero impararlo. Che fare con questi studenti? Sono la prova dell’esistenza di un ampio, diffuso desiderio di istruzione: arte, letteratura, storia, musica. È un desiderio sacrosanto, preziosissimo per la società, e su cui è possibile costruire. Sembra non risentire del dumbing down indotto dai media; anzi, sembra crescere a mano a mano che il dumbing down dei media si fa più sfacciato e volgare. Sono spesso studenti molto diligenti, e persone anche umanamente eccezionali, disposte a fare veri sacrifici per imparare cose che, lo sanno benissimo, non li aiuteranno molto quando si tratterà di trovare un lavoro.

Ma il bagaglio di nozioni che posseggono quando entrano all’università è molto leggero. E non è solo questione di quanto poco sanno, ma – soprattutto – di un atteggiamento, di una forma mentis che è inadeguata allo studio. Questi studenti cambiano, maturano, crescono a vista d’occhio di mese in mese, ma non riescono veramente a recuperare il ritardo: l’università li migliora, ma non basta a fare di loro dei buoni studiosi o (questo è il primo obiettivo delle facoltà umanistiche) dei buoni insegnanti. Più che una formazione spendibile nella vita, l’università finisce per essere una forma di terapia, o un’educazione sentimentale. È qualcosa, certo, ma forse non è abbastanza.


Giunta dice addirittura che questi studenti “formano spesso la grande maggioranza degli iscritti”. Non è ciò che vedo io, è la mia visione è senz’altro meno ottimistica di quella di Giunta. Però ci vorrebbe senz’altro uno studio imponente prima di poter decidere se sono più rappresentative della società italiana le impressioni di un docente dell’università di Trento o quelle di uno di Pisa. Ma se si ritiene che il ritratto di Giunta sia corretto, si riesce a trovare una motivazione migliore per incoraggiare le iscrizioni alla facoltà umanistiche? Esiste qualunque altro tipo di formazione in cui “spesso la grande maggioranza” degli studenti “migliora”, e addirittura migliora “a vista d’occhio”? E possa produrre effetti che, per quanto non precisati, probabilmente sono estremamente positivi per la società nel suo assieme, oltre che per i singoli individui?

Misurare in modo oggettivo questo tipo di “miglioramento” è difficile. Arum e Roska ci hanno provato e non sono andati molto avanti. Io, come accennato, non credo che i guadagni siano così vistosi e diffusi; ma forse questo avviene solo perché sono un docente peggiore rispetto a Claudio Giunta. Prendendo quest’ultimo sulla parola, però, mi chiedo se ci siano modi migliori per fornire una “terapia” o “un’educazione sentimentale” ai diciannovenni italiani che ne abbiano bisogno. Certo, forse inviarli per cinque anni a fare volontariato in Africa sarebbe più produttivo... ma anche molto più costoso.

La cultura generale
Nel mondo moderno, mi sembra importante che un cittadino italiano sappia per esempio identificare la collocazione geografica del Bangladesh, o scrivere una lettera in buon italiano, o in inglese passabile, o poter confrontare in modo ragionevole l’impero britannico e quello sovietico, o raccontare la trama di un romanzo letto di recente... Giunta ha ben presente questo genere di richieste. Ritiene però che la strada principe per arrivarci sia quella di curare la formazione degli insegnanti, più che la cultura diffusa.

Ora, per migliorare la cultura diffusa italiana in questi settori tipicamente umanistici non avrebbe naturalmente senso l’idea, giustamente irrisa da Giunta, di “laureare in Lettere l’intera nazione”. Però non mi sembra che sia neanche il caso di scoraggiare chi già di suo vuole approfondire questo genere di studi, anche se non andrà mai a fare l’insegnante. Né gli effetti sarebbero necessariamente marginali. Nelle analisi sociologiche è ben noto che molti tipi di conoscenza si diffondono attraverso canali informali, che non sono solo le conferenze pomeridiane e le mostre di cui parla (in modo giustamente critico) Giunta. Quanto conta, per la cultura diffusa, avere il cugino che è in grado di parlare arabo o che conosce la storia tedesca? Quanto conta avere genitori che leggono libri e che sono capaci di ragionare al di fuori dei luoghi comuni su un determinato argomento?

Certo, non è facile determinare il livello della discussione culturale “media” in Italia. Del resto, non è che nel mondo occidentale ogni conversazione sia un meditato scambio d’idee tra persone di ampia cultura che vedono in modo intelligente ogni problema. Nel caso italiano, però, mi sembra manchino in modo clamoroso gli spazi di discussione di alto livello ma non specialistici. Perfino i migliori quotidiani italiani, come il Corriere della sera e il Sole-24 ore, fanno una figura misera a fronte non si dice del New York Times ma di Le Monde o del Guardian di Manchester. La saggistica umanistica, in generale, ha un mercato di nicchia. Un giudizio condiviso da molti è: a confronto con gli europei di pari livello sociale, gli italiani leggono poco, sanno poco le lingue, scrivono poco e sanno poco del mondo e della sua storia. Non vedo come l’esistenza di una comunità più ampia di persone che abbiano ricevuto un’istruzione universitaria in materie umanistiche possa peggiorare questa situazione... ma vedo invece molti modi in cui può migliorarla. L’antiintellettualismo non è certo una malattia solo italiana, ma negli ultimi cent’anni l’Italia ha dato parecchio di più di quel che le toccava, da questo punto di vista.

I problemi
In conclusione, visto che io lavoro in una facoltà umanistica, il mio è (ovviamente) un parere di parte. Tuttavia, mi sembra che ci siano motivi oggettivi e ampiamente condivisibili per invitare gli studenti a iscriversi alle facoltà umanistiche, anche in assenza di posti di lavoro direttamente collegati.

Ci sono, naturalmente, delle riserve. La prima è che si deve essere ben chiari. Uno studente di facoltà umanistica deve avere ben chiaro il fatto che non c’è alcun “posto fisso” da insegnante che lo aspetta automaticamente alla fine del percorso. Questa però è normale gestione corretta della comunicazione, e richiede solo un po’ di controlli per evitare abusi.

Una riserva più precisa è che lo studio umanistico deve essere serio e rigoroso – altrimenti, banalmente, non funziona e scattano molti meccanismi di induzione alla cialtroneria. Certo, nel nostro basso mondo, certi tipi di cialtroneria ottengono spesso premi: nei numerosissimi settori in cui è difficile fare verifiche oggettive, un incompetente che si sappia presentare bene vince regolarmente su una persona competente ma poco abile nella presentazione, e in alcune aree umanistiche sono piuttosto comuni figure di produttori di aria fritta, e chi prova a leggere uno dei libri prodotti da questi individui si accorge che sono spesso privi di significato, o sbagliati (Giunta stesso ha smontato, in altre sedi, alcuni esempi esilaranti di questo tipo, a cominciare dai lavori di Julia Kristeva). D’altra parte, proprio perché viviamo in questo mondo, cialtroni vistosi e privi di spessore possono anche ottenere un grande successo e nominarne uno direttore di un festival può per esempio essere un’ottima mossa per ottenere un grande riscontro comunicativo. Non credo però che l’università abbia il fine di incoraggiare questi comportamenti a somma zero, per quanto possano essere importanti per le persone che “vincono la lotteria” (il numero delle persone che possono essere famose è probabilmente limitato, il numero delle persone che possono essere competenti non lo è, o perlomeno, non allo stesso modo). Credo anzi che abbia il dovere di individuarli, criticarli e marginalizzarli, con più cattiveria di quanto oggi non fa; ma questo è un altro discorso.

Purtroppo, però, serio non è sinonimo di difficile. Una delle maledizioni dello studio umanistico è che alcune cose importanti sono molto facili da presentare e al tempo stesso difficili da applicare o verificare. Imparare il cinese o la trigonometria sono attività difficili, che richiedono pazienza e studio; imparare a comunicare bene è presumibilmente molto più importante, nel mondo del lavoro, rispetto all’imparare la trigonometria, ma non esiste un assieme di regole su cui, studiando la notte, si possa arrivare alla fine a un’illuminazione. I parametri di base si enunciano in pochi secondi (“la comunicazione professionale di regola cerca di entrare in contatto con un destinatario per raggiungere un obiettivo”), e non ci sono formule da studiare o liste di caratteri... è tutto poco formalizzato e poco formalizzabile.

Avere una formazione umanistica di buon livello non è quindi semplice. Io ho da un pezzo il sospetto che intere aree d’insegnamento “umanistico” dovrebbero essere espulse dalle università e lasciate a un generoso dilettantismo, simile a quello di chi fa collezione di francobolli o trenini; e che, parallelamente, in alcuni casi il livello degli studi sia talmente basso da richiedere la chiusura dei corsi. Però queste sono attività, diciamo, di ordinaria manutenzione del curriculum. E che, soprattutto, non richiedono affatto che gli studi umanistici vadano ripensati in una direzione tanto orientata al “posto di lavoro” quanto quella indicata da Giunta.

giovedì 20 ottobre 2011

Salvi e Renzi, Grammatica dell'italiano antico

Salvi e Renzi, Grammatica dell'italiano anticoLa Grammatica dell’italiano antico a cura di Giampaolo Salvi e Lorenzo Renzi (Bologna, il Mulino, 2010, ISBN 978-88-15-13458-5, 140 €) è un grandioso esempio di ricerca fatta bene. Frutto del lavoro di 36 diversi autori, finanziata dal CNR, dal MIUR e da diverse università italiane, ungheresi e svedesi, si è basata sullo studio di “tutti i testi fiorentini del Duecento e del primo quarto del Trecento” (p. 9); studio reso possibile dall’esistenza del Tesoro della Lingua Italiana delle Origini (TLIO), il corpus informatico realizzato dall’Opera del Vocabolario Italiano per lo studio dell’italiano antico. Il risultato finale è un’ampia descrizione (due volumi di complessive 1745 pagine) della lingua usata a Firenze tra il 1260, data da cui comincia l’uso sistematico del fiorentino scritto, e il 1325. Gli autori hanno tenuto conto anche dei testi fiorentini più antichi, che però sono solo tre, molto brevi, e non molto anteriori al 1260. L’etichetta di “italiano antico” indica quindi qualcosa che forse sarebbe più opportuno chiamare “volgare fiorentino della fine del Duecento e dell’inizio del Trecento”, ma la sostanza è ben definita.

In riferimento a quanto detto due post fa, va poi precisato che, se è normale cercare di ricostruire la grammatica di una lingua morta (dall’ittita al tocario), sono molto rari i tentativi di ricostruire in modo così sistematico le fasi antiche di una lingua viva. La relativa abbondanza di documentazione sul fiorentino di questi anni, la presumibile vicinanza dello scritto al parlato (in assenza di una tradizione letteraria), nonché l’importanza di questo periodo storico per l’evoluzione della lingua italiana hanno reso invece il lavoro della Grammatica sia possibile sia culturalmente sensato. È chiaro che i testi d’epoca a disposizione formano un assieme limitato (poche migliaia di pagine a stampa), ma i curatori, coerentemente con la loro impostazione generativista, hanno ritenuto di non doversi limitare alle forme effettivamente documentate. Hanno quindi compiuto estrapolazioni ragionevoli: anche se tra i testi arrivati fino a noi compaiono solo raramente la I e la II persona plurale dei verbi, i paradigmi sono stati per esempio completati per analogia, senza lasciare spazi vuoti.

Un’analisi linguistica così dettagliata e sistematica permette innanzitutto, in un procedimento circolare, di capire meglio i testi che ci sono arrivati, correggendo in alcuni casi dei veri e propri fraintendimenti linguistici. Succede, per esempio, con le forme del tipo “si è / sì è”, che spesso gli editori di testi antichi presentano e intendono con oscillazioni (il si è pronome, oppure si tratta dell’avverbio , ‘così’?). La Grammatica scioglie i dubbi chiarendo il modo in cui l’italiano antico usava, accanto al verbo essere, anche “la variante pronominale essersi” (p. 203), oggi scomparsa ma ben presente all’epoca in frasi come “io non sapea ove io mi fosse” (= ‘ove io fossi’): “il clitico riflessivo elide generalmente la vocale davanti a una forma verbale che comincia per vocale e questa elisione avviene praticamente sempre davanti alle forme di essere e avere” (p. 204). Di conseguenza, tutti i casi in cui un testo scritto riporta “si è” per esteso andranno interpretati come “così è”, e non come occorrenze del verbo essersi.

Tuttavia, anche la migliore analisi di una lingua scritta non può permettere di ricostruire in pieno il parlato. Il ritmo di una lingua (quella che spesso viene chiamata “la calata”) non lascia tracce scritte. La curva intonativa delle frasi non è individuabile con precisione, eccetera. In mancanza di registrazioni o di descrizioni scientifiche come quelle condotte a partire dal Novecento, questi aspetti non potranno mai essere perfettamente ricostruiti per nessuna lingua anteriore al 1860. Il quarantaduesimo e ultimo capitolo della Grammatica dell’italiano antico, scritto da Pär Larson, ricorda quindi giustamente che “ogni tentativo di analisi rigorosamente fonologica basata esclusivamente su fonti scritte” (p. 1515) deve per forza di cose essere “ipotetico e provvisorio”; e non a caso, come raccontava Lorenzo Renzi in un seminario tenuto a Pisa la settimana scorsa, questo delicatissimo settore della Grammatica è l’unico in cui le indagini hanno reso necessario il controllo dei manoscritti, in aggiunta all’elaborazione dei testi forniti dalle edizioni moderne.

Nel caso del fiorentino del periodo 1260-1325 siamo peraltro abbastanza fortunati. La lingua è vicina all’italiano moderno, e già nel Quattrocento ci sono state descrizioni grammaticali del fiorentino che, pur essendo pre-scientifiche, forniscono indicazioni utili. Resta il fatto che le fonti scritte non possono fornire indicazioni sicure su fenomeni anche vistosi, a cominciare dalla presenza della “gorgia toscana”... il tratto di pronuncia per cui, semplificando un po’, oggi i fiorentini dicono “la hasa bianca”, eccetera. Tecnicamente si tratta della spirantizzazione delle occlusive sorde che si trovano tra due vocali, e il fiorentino di sicuro la praticava già agli inizi del Cinquecento. Qual era però la situazione nel Trecento? O, in altri termini, Dante diceva “la casa” o “la hasa”? Cosa strana, non è facile rispondere a questa domanda, perché la spirantizzazione dipende dal contesto (manca, quindi, a inizio di frase), e fenomeni di questo tipo raramente vengono registrati dalla scrittura: se chi parla dice sia “casa mia” sia “la hasa”, è probabile che la parola venga scritta sempre allo stesso modo, indipendentemente dalla pronuncia effettiva nei singoli casi.

Questo, d’altra parte, è il caso più vistoso di incertezza (Larson lo descrive a p. 1530). Gli altri punti in cui la fonologia del fiorentino 1260-1325 lascia dubbi sono, per fortuna, molto più circoscritti. Se poi si escludono i dubbi, ben presenti anche nelle lingue vive, sul valore fonematico di una determinata opposizione (per esempio, esisteva un’opposizione reale tra /j/ e /i/, p. 1526? O tra /w/ e /u/, p. 1527?), la casistica è ancora più limitata. Rimangono in sostanza questi:

  • /je/ preceduto da r poteva essere realizzato con un’iniziale semivocalica, cioè /i̯e/ (p. 1522)?
  • esisteva un dittongo tonico /je/ in sillaba chiusa (p. 1523)?
  • le sequenze “-cuo-” e “-guo” venivano pronunciate come labiovelare + sillaba, come ritiene anche Larson, o come consonante velare + dittongo (p. 1523)?
  • le sequenze /ae/, /ea/, /ue/ erano in realtà dittonghi discendenti?
  • in parole come “iudice” o “iurare” l’iniziale veniva pronunciata /j/ o, come ritiene anche Larson, /dƷ/ (p. 1526)?
  • qual era l’esatta distribuzione delle lunghezze consonantiche, oltre all’opposizione breve-intensa (pp. 1529-1530)?
  • qual era esattamente la distribuzione di /s/ e /z/, cioè di “s sorda” e “s sonora” (p. 1537)?
  • era possibile, cosa a cui Larson non crede, far cadere la vocale finale di una parola davanti a parole inizianti per /ʃʃ/ (p. 1538)?
  • esistevano davvero, come crede anche Larson, le occlusive palatali /c/ e /ɟ/ (p. 1544)?
  • c’era una tendenza, cosa a cui Larson non crede, allo scempiamento delle consonanti doppie protoniche, o almeno un’oscillazione nella loro pronuncia (p. 1545)?
In alcuni casi, queste domande riguardano tratti di pronuncia relativamente vistosi: un ipotetico viaggiatore del tempo che si preparasse a fare un viaggio in incognito nella Firenze del 1301 studiando la lingua sulle fonti scritte rischierebbe forse di farsi notare usando la s sorda là dove un fiorentino avrebbe usato la sonora, o viceversa... Ma in molti altri casi, le differenze di pronuncia probabilmente non sarebbero nemmeno notate dai parlanti (così come chi oggi parla italiano ha molte difficoltà a distinguere /j/ da /i̯/, ammesso che una differenza effettiva ci sia, o anche solo da /i/).

Detto questo, torniamo alla domanda di base: “è possibile ricostruire con precisione la lingua parlata del passato?” Per il fiorentino del 1260-1325, a questo punto è chiaro che la risposta è: “in buona parte sì, anche se per alcuni tratti del parlato è impossibile arrivare a conclusioni sicure”. Resta il fatto che chi volesse basarsi su questa Grammatica per simulare per iscritto un dialogo avvenuto per le strade di Firenze nel 1301, con un po’ di lavoro potrebbe ottenere un risultato perfettamente verosimile – e che, recitato ad alta voce da un fiorentino dell’epoca, non avrebbe attirato l’attenzione di nessuno.

mercoledì 19 ottobre 2011

Il cinese soppianterà presto l’inglese? Sì, se si legge giornalismo di seconda mano

 
Prima di parlare di Renzi e Salvi, un commento al volo a un articolo pubblicato oggi sul sito della Repubblica: Do you speak mandarino? Cinese, nuova lingua globale, a firma di Giampaolo Visetti. Le affermazioni fatte nell’articolo sono straordinarie, e tali da cambiare la visione del futuro che comunemente hanno i linguisti. Basta leggere il sottotitolo sul trionfo del cinese: “Nel 2015 diventerà l'idioma più studiato del pianeta. Ha già superato l'inglese e per i top manager è ormai indispensabile”.
 
Certo, poi a pensarci un attimo... il cinese ha già superato l’inglese? Uao. Ma allora, quale lingua deve ancora superare per diventare “l’idioma più studiato del pianeta” nel 2015? Il tagalog? Il russo? L’armeno? E davvero per i “top manager” è indispensabile? In Italia, in fin dei conti, abbiamo esempi di “top manager” che non hanno mai imparato nemmeno l’inglese e sono saldamente al loro posto...
No, il punto è che Giampaolo Visetti, pur essendo “corrispondente” da Pechino, per scrivere questo pezzo ha in buona parte copiato informazioni che erano state presentate in un ottimo articolo del Telegraphinglese alla fine di settembre, trasformandole ed esagerandole nel modo tipico del giornalismo italico di seconda mano.

Quanto è profonda la deformazione? Difficile dirlo, ma in alcuni casi sembra proprio che il testo italiano inventi liberamente sulla base di quello inglese. In diversi punti i due articoli citano dichiarazioni rilasciate dalle stesse persone, ma le battute attribuite a un certo punto del testo italiano al professor Li Quan sembrano un rimontaggio e un fraintendimento di quanto detto nel testo inglese:

"Il problema - dice il professor Li Quan - è che non c'è gara tra la passione dei cinesi che studiano inglese e quella di questi che si applicano al mandarino. Il risultato è che la Cina comprende l'Occidente, ma non viceversa. E' tempo per certificare i livelli progressivi di conoscenza del mandarino con attestati riconosciuti e da rinnovare, come avviene per l'inglese".


"There is no competition!" said Prof Li. "The passion that Chinese have for learning English is much greater. All of our exams, the university exams and the exams for professional certificates judge you on English skills. So unless the rest of the world implements an identical scheme in its schools, Chinese will never manage to penetrate as deeply."

In alcuni casi le interviste sembrano invece fatte ex novo (le battute attribuite agli intervistati sono molto diverse da quelle che si ritrovano nell’articolo del Guardian), ma lasciano diverse perplessità. Per esempio, l’articolo di Visetti riporta questa dichiarazione:

"Siamo davanti ad un'epocale rivoluzione del linguaggio umano - dice Zheng Wei, docente della facoltà di lingue di Pechino - ma le difficoltà restano: il mandarino è complicato e non è affatto scontato che chi afferma di studiarlo, riesca a impararlo".


Però nell’articolo originale Zheng Wei, che dice qualcosa di vagamente simile a quanto riportato da Visetti, non viene indicato come “docente”, ma come “an editor at Beijing Language University's publishing house” (cioè, un redattore editoriale). E quale sarebbe poi la facoltà di lingue di Pechino, città con settanta università?

Cosa ancora più allarmante, l’articolo del Guardian è una presentazione intelligente e bilanciata dello stato delle cose, e gli intervistati dicono cose di buon senso. Il professor Li Quang nel testo inglese esprime una ragionevole opinione condivisa da molti linguisti (me incluso, nel mio piccolo), e cioè che, anche se il cinese diventerà più diffuso, “it is pretty unlikely that it will really be a proper world language”.

Incredibilmente, nel testo italiano le dichiarazioni dello stesso docente, che in parte ripetono cose che compaiono anche nell’articolo inglese, sono di tenore completamente diverso:

Il risultato - dice il professor Li Quan dell'università Renmin di Pechino - è storicamente scontato. Chi domina la ricchezza, da sempre impone il linguaggio. (...) L'ascesa del mandarino e il tramonto dell'inglese sono lo specchio popolare della realtà.

Affermazioni del genere sembrano, a chi conosce un po’ di sociolinguistica, decisamente poco sostenibili (che cosa vuol dire poi che “L'ascesa del mandarino e il tramonto dell'inglese sono lo specchio popolare della realtà”?). E in generale l’articolo italiano presenta idee a cui pochi addetti ai lavori credono: che il cinese si stia diffondendo in modo significativo già oggi nel mondo, e che sia destinato a diventare presto una lingua rilevante sul piano internazionale. In realtà, solo minuscole percentuali della popolazione dei paesi occidentali lo stanno studiando – rispetto al quasi 100% dei giovani che studiano inglese – ed è molto probabile che per tutto il ventunesimo secolo i non-cinesi capaci di parlare il cinese saranno un gruppo marginale.
Per giudicare la competenza dell’autore dell’articolo in materia linguistica, infine, si legga questa frase meravigliosa:


Priva di alfabeto, organizzata per ideogrammi, la lingua comune dei cinesi obbliga a memorizzare migliaia di termini e di segni, ognuno dotato di quattro significati differenti a seconda dell'intonazione con cui viene pronunciato.

Priva di alfabeto? C’è il pinyin. Ideogrammi? sono caratteri, non ideogrammi. Obbliga a memorizzare migliaia di termini? Sì, ogni lingua lo fa, e si chiamano “parole”. Ogni “segno” è dotato di quattro significati differenti a seconda dell’intonazione? No, anzi, ogni carattere corrisponde di regola a un'unica pronuncia...
 
Aggiornamento: in seguito ho scoperto che Visetti non è nuovo a questo genere di esercizi.
 

domenica 16 ottobre 2011

Sappiamo in che modo parlava la gente, prima del fonografo?

Registrazione etnografica americana del 1916: Wikipedia in lingua inglese, voce Sound recording and reproductionDue anni fa sono andato a Varsavia a parlare della lingua usata per i dialoghi in alcuni romanzi storici italiani. Da quel lavoro sono venute fuori anche alcune discussioni con gli autori dei romanzi medesimi, sul tema: è possibile ricostruire con precisione la lingua parlata del passato?


Intanto, da poco più di un secolo e mezzo è possibile registrare la voce umana, e questo scioglie un sacco di dubbi – anche se la qualità delle registrazioni più antiche è molto scarsa. Cosa curiosa, sembra che, a esclusione di un verso cantato in francese, la più antica registrazione della voce umana sia in lingua italiana: i tre versi iniziali del prologo dell’Aminta di Tasso letti ad alta voce (in modo non del tutto corretto) da Édouard-Léon Scott de Martinville, l’inventore del “fonoautogramma”, tra l’aprile e il maggio del 1860. Ma tutta la storia del fonoautogramma merita una lettura, sul sito FirstSounds.

Nella pratica, le registrazioni si fanno più diffuse e comprensibili solo a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, con la diffusione del fonografo di Edison. Non che per l’italiano le prime registrazioni siano peraltro facili da trovare... Ho cercato, ma non mi sembra che nessuno si sia mai posto il problema di fare una lista delle più antiche registrazioni di parlato italiano ancora oggi ascoltabili. L’Istituto Centrale per i Beni Sonori ed Audiovisivi dichiara di avere nella Sezione Voci storiche:

le voci di personaggi importanti in tutti i campi della storia del secolo appena trascorso, da quello letterario a quello politico a quello musicale: voci di poeti e scrittori quali Giacosa, incisa nel 1900, Trilussa, Marinetti, Deledda, Pirandello, Quasimodo, Bassani, Caproni, Luzi, Bertolucci,...; voci di papi, a partire da quella di Leone XIII del 1903; voci di re: Vittorio Emanuele III; voci di generali e politici della prima guerra mondiale: Cadorna, Diaz, Badoglio, Orlando; voci del fascismo: Mussolini, De Vecchi, Balbo,...; voci di scienziati: Marconi, Fermi,...; di politici della repubblica: Togliatti, De Gasperi, Nenni, Saragat,...

Queste registrazioni non sono però disponibili sul web o in qualunque forma che non richieda la visita a un archivio specializzato (o perlomeno, io non sono riuscito a trovarne traccia – qualche anno fa, diversi di questi campioni erano stati presentati sul sito web dell’allora Discoteca di Stato). Parlando di linguaggio di inizio Novecento siamo inoltre già a contatto con la memoria dei viventi: non c’è bisogno di basarsi solo sulle registrazioni, si può anche chiedere a chi ha imparato a parlare in quegli anni – anche se da qui al 2015 scompariranno, purtroppo, gli ultimi esseri umani che abbiano imparato a parlare nell’Ottocento. Per gli anni successivi, infine, la quantità di registrazioni aumenta e si intreccia sempre più con le pratiche quotidiane.

Andando a ritroso nel tempo, viceversa, le cose diventano più difficili. Prima del 1860, in assenza di registrazioni e ormai scomparsi tutti i testimoni diretti, ci si può basare solo sulle fonti scritte. Né aiutano molto le (poche) descrizioni di una lingua lasciate dai contemporanei: prima dell’Ottocento, con poche eccezioni, si tratta di descrizioni pre-scientifiche che non forniscono informazioni concrete (che cosa può significare, per esempio, l’osservazione che in una data città d’Italia la pronuncia “è più dolce” rispetto a un’altra? Nulla che possa essere trasformato in precise indicazioni articolatorie o ritmiche). Si è anche parlato della possibilità che i prodotti lavorati al tornio, per esempio i vasi, possano aver “registrato” in modo ricostruibile le vibrazioni dell’aria prodotte da persone che parlavano nelle vicinanze durante la lavorazione... ma, che io sappia, nessuno è mai riuscito a ricavare nulla di utile da queste speculazioni.

Qualche aiuto può venire dalle testimonianze indirette. In fin dei conti, l’esistenza di lingue come l’indoeuropeo si può dedurre con buona approssimazione dal semplice confronto delle lingue derivate, senza che dell’indoeuropeo originale sia arrivata fino a noi la minima testimonianza diretta, scritta o d’altro genere. Tentativi di ricostruire su questa base indiretta la lingua effettivamente parlata sono stati fatti da molto tempo e continuano ancora oggi. Il più famoso di questi risale però al 1868, quando il filologo tedesco August Schleicher, basandosi sulla propria ricostruzione dell’indoeuropeo, provò a scrivere una breve favola in quella lingua. In seguito, lo stesso testo è stato usato da altri linguisti per fare lo stesso esperimento... ma, anche se probabilmente c’è stato un progresso, le differenze tra le varie versioni rendono chiaro che il margine di dubbio è notevole. Schleicher diede al brano un titolo elementare: Avis akvāsas ka (‘la pecora e i cavalli’... chi ha familiarità con il latino lo può facilmente ricondurre a un’espressione non grammaticale, ma strettamente imparentata, come "ovis equosque"), cioè in pratica tre parole accostate. Nonostante questa elementarità, il modo “giusto” per ricostruire il titolo è però variato molto negli anni. Due delle ricostruzioni più recenti sono per esempio queste, che modificano radicalmente la scelta delle vocali:

ʕʷeuis ʔkeuskʷe
h2ówis h1ék’wōskwe


Insomma, le fonti scritte sono l’unico strumento possibile – per quanto incompleto – per ricostruire credibilmente il parlato per buona parte della storia umana. Se mancano fonti scritte, si possono fare supposizioni intelligenti ma piuttosto generiche. Se per miracolo un parlante indoeuropeo nativo saltasse fuori oggi, scongelato, da un blocco di ghiaccio himalayano, è lecito sospettare che recitandogli la favoletta di Schleicher (o una delle sue rielaborazioni) non si otterrebbe una comprensione immediata.

E per le epoche successive? Qui ci si confronta con problemi diversi, visto che la scrittura fornisce un quadro molto ampio rispetto alle testimonianze indirette, ma comunque parziale. Per il caso italiano una risposta esemplare a questo genere di dubbi è stata comunque fornita l’anno scorso dalla Grammatica dell’italiano antico di Giampaolo Salvi e Lorenzo Renzi: due imponenti volumi di cui spero di parlare nel prossimo post.

mercoledì 12 ottobre 2011

Promossi e bocciati alla maturità

Nelle ultime settimane il quotidiano la Repubblica ha pubblicato diversi articoli sulla questione della severità nella scuola italiana. Un articolo di Salvo Intravaia del 4 ottobre parla esplicitamente di “flop della linea dura”, un articolo anonimo pubblicato ieri ha toni più sfumati a seconda dei casi ma ribadisce alcuni concetti.

Il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca ha risposto alle prime osservazioni con una nota pubblicata sul sito. Il 10 ottobre è stata pubblicata sullo stesso sito, sezione “Istruzione”, anche una sintesi dei dati relativi agli esami di stato delle scuole secondarie di primo e di secondo grado.

Che cosa dicono in effetti i dati? Beh, intanto dicono che per gli ultimi anni, per quanto riguarda la maggior parte degli studenti, la situazione è rimasta in sostanza stabile. Nelle scuole secondarie di secondo grado, per esempio, tra il 2005 e il 2011 il numero dei non ammessi all’anno successivo è rimasto più o meno invariato; per il 2011 i dati provvisori indicano il valore più basso della serie, ma che comunque sarebbe solo inferiore dell’1,8% del totale rispetto all’anno precedente.

Più interessante è esaminare il caso degli esami finali della scuola secondaria di secondo grado, in cui tra l’anno scolastico 2005-2006 e il 2006-2007 è stato cambiato il sistema di valutazione. Questo cambiamento presenta l’unico caso indubitabile di “successo” incluso in questo gruppo di dati, visto che il cambiamento è evidente sul piano dei numeri e attribuibile con ragionevole certezza al nuovo sistema.

Nel 2005-2006 tutti gli studenti, in sostanza, venivano ammessi all’esame finale (la “maturità”) e all’esame ne veniva respinto il 3,4%. Nel 2006-2007, primo anno del nuovo sistema, la percentuale dei non ammessi è stata del 3,9, quella degli studenti ammessi ma respinti all’esame è stata del 2,1 (sul totale degli ammessi). L’arrotondamento alla prima cifra decimale con cui sono presentati i dati non permette di calcolare con precisione il totale – che non viene fornito dalla sintesi pubblicata – ma, in prima approssimazione e arrotondando per eccesso, diciamo che le due cifre possono essere semplicemente sommate e forniscono quindi il 6%, cioè un 2,6% del totale in più rispetto all’anno prima. Visto che la differenza è molto più marcata di quelle indicate per gli anni successivi (il ministero non include quelle degli anni precedenti), è legittimo ritenere che la maggiore severità sia stata un frutto diretto del nuovo sistema (anche se va ricordato che il dato grezzo non dice se, per esempio, il 2,6% in più degli studenti respinti con il nuovo sistema nel 2007 era fatto di studenti che effettivamente non avevano le qualifiche per essere promossi, oppure di studenti che non sono stati ammessi anche se, presentandosi all’esame, avrebbero potuto ottenere la sufficienza; ammettiamo però che il caso giusto sia il primo).

Per quanto riguarda gli anni successivi, calcolando allo stesso modo il totale dei “bocciati” (= non ammessi + respinti), gli esami hanno prodotto in totale queste percentuali di “bocciature”, che sono tutte superiori a quelle del primo anno del nuovo sistema:
  • 2008: 6,1
  • 2009: 6,8
  • 2010: 7,5
  • 2011: 6,1 (dato provvisorio, riferito al 94% dei candidati)
Oggi, prendendo per buono il dato provvisorio, dopo quattro anni di aumento continuo si è ritornati al livello del 2008, con un brusco calo (1,4% del totale) rispetto al 2010. Rispetto all’ultimo anno del vecchio sistema c’è comunque anche nel 2011 un 2,7% di “bocciati” in più. In questo senso, ha ragione sia chi sostiene che in questo caso particolare il nuovo sistema è “più severo” del vecchio sia chi fa notare che nell’ultimo anno c’è stato un calo vistoso di bocciature. Le percentuali sono comunque, in ogni caso, molto più alte di quelle del 2006.

Che cosa significa questo, in una prospettiva più ampia? Intanto, che le differenze tra il “vecchio” e il “nuovo” sono comunque circoscritte. Prendendo come riferimento la divaricazione massima, quella tra il dato del 2006 e il dato del 2007, la differenza è del 4,1% del totale. È chiaro che tra una scuola che respinge il 3,4% degli studenti e una che ne respinge il 7,5% c’è una differenza importante, ma è chiaro anche che non si tratta di una differenza epocale. Non sono riuscito a trovare serie storiche confrontabili, ma questa analisi fornisce una prima valutazione sui risultati degli ultimi vent’anni.

Il senso comune in questo caso non sembra poi vicino a comprendere ciò che dice il buon senso: la scuola non è fondamentalmente un ente di selezione, ma di formazione e istruzione. Il suo compito non è “bocciare”, ma formare, e il respingimento all’esame è solo una delle tante tecniche al servizio di questo fine. Importante, per carità, ma inutilizzabile in isolamento per valutare il sistema. Davanti a un ipotetico aumento della percentuale dei respinti si può quindi pensare che sia dovuta a una maggiore severità nella valutazione (a formazione invariata), ma anche a una peggiore qualità della formazione (a valutazione invariata). Oppure, com’è ovvio, a una mescolanza complessa anche solo di questi due fattori. E viceversa nel caso di un calo della stessa percentuale. Qual è la risposta giusta?

Negli anni successivi, entrato a regime il nuovo sistema, è impossibile sapere per esempio se il 7,5% del 2010 sia frutto di una particolare severità dei giudicanti o di una particolare incapacità formativa della scuola. Il dato non dice nulla sulle cause, né potrebbe farlo. Per capire qualcosa di più occorre svolgere valutazioni ben più complesse e costose.

domenica 9 ottobre 2011

Scribner e Cole, Psychology of Literacy

Testo in sillabario vai su un copricapo durante una cerimonia; da Scribner e Cole 1981, inserto fotografico dopo p. 34

Nella prima metà del Novecento si è notato che, in alcune situazioni comunicative, chi sa leggere e scrivere si comporta in modo diverso rispetto agli analfabeti. Per esempio, gli studi di Luria negli anni Trenta hanno messo in luce capacità diverse di fornire spiegazione “astratte”, indipendenti dal contesto, e così via.

Più incerta è la causa di queste differenze. Si tratta per esempio di una conseguenza dell’apprendimento della scrittura in quanto tale? Oppure della formazione scolastica in senso ampio? Difficile separare le due cose, perché oggi di regola, un po’ in tutto il mondo, si impara a scrivere andando a scuola. Negli anni Settanta Sylvia Scribner e Michael Cole hanno cercato di dare una risposta sperimentale a questo dubbio, e hanno descritto il loro lavoro nel libro The psychology of literacy (Cambridge e Londra, Harvard University Press, 1981). Il metodo seguito è interessante, e i risultati lo sono ancora di più.

I vai e il loro sistema di scrittura


I vai sono un popolo di etnia mande residente in Africa occidentale, in buona parte all’interno dei confini della Liberia. Nonostante formino un gruppo etnico di dimensioni contenute (165.000 persone in totale), i vai hanno attirato da tempo l’attenzione per il loro sillabario: un sistema per scrivere la lingua vai inventato attorno al 1830 da Momolu Duwalu Bukele e altri anziani. Non si tratta di un sistema inventato da zero, visto che i vai erano da tempo in contatto con la scrittura in alfabeto latino e con quella in alfabeto arabo, ma ha caratteristiche originali rispetto ai suoi probabili modelli, a cominciare dal fatto che si tratta appunto di un sillabario e non di un alfabeto.

Tra parentesi, le somiglianze strutturali tra il sillabario vai e quello inventato solo una decina d’anni prima in America dal capo Sequoia dei Cherokee sono tali che è possibile perfino ipotizzare che Bukele si sia ispirato al modello americano... tanto più che un indiano Cherokee, Augustus o Austin Curtis, si era trasferito tra i vai nel 1827-1828 ed era diventato un capo importante (la prima scritta in vai notata da occidentali fu in effetti, nel 1832, quella sull’ingresso di casa sua). La storia, affascinante, di questa possibile origine è raccontata in un saggio di Tuschscher e Hart accessibile tramite JSTOR; e anche altri vai, in tempi più recenti, hanno storie affascinanti da raccontare – a cominciare da Hans-Jürgen Massaquoi. Tuttavia, il punto chiave è che il sistema vai è frutto di un’analisi fonetica del linguaggio piuttosto sofisticata: secondo l’analisi di un linguista di inizio Novecento, citata da Scribner e Cole a p. 32, “the Vais have acquitted themselves by no means badly as phoneticians”. A un rapido sguardo, mi sembra in effetti evidente che alcuni segni siano stati creati in base a una classificazione articolatoria, con l’uso di caratteri simili per rappresentare per esempio le sillabe con /p/ () e quelle con /b/ (/pe/ e /be/ sono rispettivamente ꗨ e ꗩ) o quelle con /f/ e /v/ (/fa/ e /va/ sono rispettivamente ꕘ e ꕙ), eccetera... Chi vuole sbizzarrirsi può comunque elaborare con comodo i caratteri vai, visto che sono stati inclusi in Unicode e che sono liberamente disponibili alcuni font per visualizzarli su diversi sistemi, incluso Linux.

Dal punto di vista di Scribner e Cole la scrittura vai è però interessante, più che per la sua natura, per il modo in cui viene usata e insegnata. Anche se Bukele e i suoi collaboratori e successori fondarono scuole, nella seconda metà del Novecento la scrittura è stata trasmessa quasi unicamente per apprendimento diretto tra adulti, uno a uno. In altri termini, un vai che voglia imparare la scrittura deve contattare un vai che già conosca il sistema e farsi insegnare (in un tempo variabile da poche settimane a qualche mese). Si tratta quindi di uno dei casi, rarissimi su scala mondiale, in cui un sistema di scrittura viene trasmesso ad analfabeti al di fuori di un sistema scolastico – in forma pura, in un certo senso. Il sillabario vai viene – o almeno, trent’anni fa veniva – usato per scopi soprattutto pratici, dalla scrittura di appunti a quella di lettere commerciali o informative (“Conducting ones’ personal affairs is the leading advantage claimed for literacy by most informants”: p. 82).

Nel mondo della comunicazione e del linguaggio, naturalmente, i casi perfetti sono pochi. Negli anni Settanta la ricerca di Scribner e Cole si è svolta in un contesto in cui molti vai erano analfabeti, altri avevano imparato solo il sillabario vai, altri avevano frequentato scuole coraniche (in cui l’arabo del Corano poteva essere imparato a livello puramente mnemonico, senza comprensione, oppure come lingua vera e propria), altri ancora scuole con insegnamento in inglese. In alcuni casi un tipo di apprendimento si sovrappone a un altro, in altri casi (per esempio, lo studio dell’inglese e quello del sillabario vai: p. 107) chi ha studiato una cosa di solito non ha studiato l’altra, eccetera. Tutto ciò ha complicato il lavoro, ma Scribner e Cole hanno ideato diversi modi per ottenere comunque risultati utili.

Gli esperimenti


I ricercatori, nel giro di diversi anni, hanno condotto interviste e sessioni di prova con vai appartenenti a categorie diverse: non alfabetizzati, alfabetizzati solo in vai, alfabetizzati in vai e arabo, e così via. I dati risultanti sono stati poi sottoposti a un’analisi statistica (inclusi procedimenti di regressione), per cercare di portare alla luce i fattori che influenzano i risultati. Questo naturalmente significa tener conto di una pluralità di fattori... cioè di quelle cose che rendono studi del genere un inferno. Tra le variabili di cui gli autori hanno tenuto conto figurano infatti non solo quelle sullo studio della scrittura, ma anche quelle sull’età, sui periodi trascorsi al di fuori del territorio vai, sul tipo di lavoro condotto, sullo status sociale, sulla partecipazione alla religione tradizionale, eccetera eccetera.

Le prove in sé hanno poi riguardato competenze sia generali sia linguistiche. In alcuni casi è stato chiesto di analizzare il linguaggio, e di dire per esempio se una frase in vai era grammaticalmente corretta o meno, spiegando il perché. In altri casi, soprattutto all’inizio della ricerca, sono state privilegiate le competenze cognitive più generali; per esempio è stato chiesto di raggruppare forme geometriche oppure oggetti della vita quotidiana in base a categorie astratte. Nel caso delle competenze logiche, descritto alle pp. 126-128, ai soggetti esaminati veniva per esempio chiesto di rispondere a domande modellate su classici sillogismi, su questo modello:

All government officials are wealthy.
All wealthy men are powerful.
Are some government officials powerful?

Quest’ultimo tipo di verifica è particolarmente interessante, perché in passato si è insistito molto sull’associazione tra scrittura e pensiero logico. Quali sono stati, quindi, i risultati?

I risultati

Gli esiti degli esperimenti sono stati estremamente interessanti. In primo luogo, per le competenze cognitive generali le differenze tra “alfabetizzati” e “non alfabetizzati”, anche nei casi più estremi, non sono sembrate così marcate quanto la tradizione di ricerca poteva far pensare. Tenendo conto dei vari fattori a monte, spesso gli autori non sono stati in grado di individuare differenze significative tra gli alfabetizzati e gli analfabeti anche in compiti, come quelli di classificazione, in cui altri esperimenti le avevano riscontrate. Perfino in rapporto a un’asserzione generica come “attendance at school stimulates growth of overall cognitive competence” gli autori dicono quindi: “school effects in our studies are not consistent enough to support that generalization, even if it is qualified to refer to cognitive competence as measured in experimental tasks only” (p. 244) L’aspetto finale della ricerca, orientata su competenze meno impressionanti di quelle cognitive generali, è in effetti in parte dovuto all’impossibilità di trovare differenze cognitive generali – cosa che nel 1976, dopo tre anni di lavoro, spinse gli autori a una correzione di rotta (p. 158).

Sul piano linguistico, infatti, le differenze tra alfabetizzati e non alfabetizzati sono ben rilevate... ma, a sorpresa, non in tutti i casi in cui molti hanno predetto che si sarebbero trovate. Per esempio, nel fornire le definizioni di alcuni tipi di parole, alfabetizzati e non alfabetizzati si sono rivelati molto simili; e nel riconoscere agrammaticalità nella lingua, entrambi i gruppi “were virtually perfect” (p. 152; con buona pace di McLuhan, che sosteneva l’impossibilità da parte degli analfabeti, o perlomeno delle società senza scrittura, di individuare “errori” grammaticali). Alcuni tipi di attività riescono invece molto più facili agli alfabetizzati, e lo stesso vale, in modo ancora più vistoso, per alcuni tipi di riflessione sul linguaggio.

A me, per ovvi motivi, tra gli esperimenti condotti interessano soprattutto quelli descritti nel dodicesimo capitolo (Communication: making meaning clear), che analizza le differenze nelle capacità di inviare messaggi a sconosciuti. I vai alfabetizzati hanno per esempio un modo piuttosto codificato di scrivere lettere, con formule fisse di introduzione e di saluto. Una tipica lettera vai, tradotta in inglese, suona quindi così:

This letter belongs to Vaanii B. of Wuilo, Tewo. My greetings to you. Old man Fakaman sends greetings to you. Now this is your information.
If you have eddo, please send some. I beg you to bring it to Diaa and give it to Boima B. He is the young man who has the launch. I told him about it and he has agreed so please try to do it so he will bring it to me free of charge; please, we are looking forward to receiving it. I am finished. I am Fakaman’s son.
Momo J. (p. 201)


Indipendentemente dalla tradizione di scrittura, Scribner e Cole hanno comunque chiesto ai soggetti esaminati di svolgere su due compiti: spiegare le regole di un gioco da tavolo a una persona che non lo avesse mai praticato, e scrivere o dettare una lettera che fornisse a un forestiero le indicazioni per raggiungere la fattoria del mittente. Gli autori ritengono che le abilità richieste da questo tipo di comunicazione siano tre:

1. valutare quali sono le informazioni necessarie al destinatario
2. esprimere chiaramente queste informazioni
3. organizzare queste informazioni in modo da permettere al destinatario di ricostruire facilmente la situazione

Per quanto riguarda la prima abilità, la dichiarazione degli autori è netta: “all our studies indicate that literates hold no special position” (p. 218). Le cose cambiano però per le altre due, in cui gli alfabetizzati si rivelano “considerably better”. Cosa di diretto interesse per me, questi dati suggeriscono che “one way writing may improve instructional communication is not so much in improving ability to take the listener’s perspective, but in equipping a person with techniques to meet the informational demands of the particular communicative situation” (sempre p. 218).

Le conclusioni

Alla fine, del lavoro, gli autori sintetizzano le proprie (ragionevolissime) conclusioni nel quattordicesimo capitolo, dedicato a The practice of literacy. Il punto essenziale è che i risultati raggiunti non possono essere descritti “in either a ‘no difference, all thought is the same’ position nor in terms of a Great Cognitive Divide” (p. 235): le distinzioni sono reali, ma sottili e vincolate al contesto sociale – né sono sempre prevedibili. La figura 14.1 del libro (p. 253), che mostra i settori in cui i ricercatori hanno individuato l’influenza di un qualche tipo di alfabetizzazione, è molto indicativa:

Insomma, da questa ricerca l’alfabetizzazione emerge come una componente importante ma non decisivo all’interno di un insieme di pratiche sociali. L’alfabetizzazione non trasforma proto-umani in umani “educati”: permette a esseri umani già dotati di un pensiero sofisticato di svolgere attività nuove, che spesso si possono portare a termine solo con un apprendimento dedicato.

mercoledì 5 ottobre 2011

Requisito minimo: venti pagine

Nell’ultimo anno accademico, in aggiunta a due corsi / moduli da 6 crediti per la laurea triennale di Informatica umanistica e ai corsi in India, ho fatto un modulo da 6 crediti per la laurea magistrale di Informatica umanistica e, assieme a colleghi, ho coordinato un seminario da 6 crediti. In quasi tutti i casi ho stabilito che la prova finale includesse un lavoro di scrittura: al minimo, due pagine di testo in italiano per gli studenti indiani del Master, dieci pagine di voci di Wikipedia per il Laboratorio di scrittura della triennale, e soprattutto, una relazione di una ventina di pagine per i due corsi della magistrale.

I risultati sono stati variegati e istruttivi. Lasciando da parte il discorso su India e triennale, le relazioni per la magistrale hanno mostrato un quadro che conoscevo già bene, ma ha fatto emergere alcuni punti importanti. Innanzitutto, naturalmente, a livello di ortografia e di frase gli studenti di una specialistica in Informatica umanistica sanno in genere scrivere bene e correttamente, producendo testi “professionali”, che dal punto di vista linguistico non attirerebbero le critiche di nessuno se fossero portati in pubblicazione in sedi adeguate. A parte poche eccezioni, la scrittura della tesi a fine corso dovrebbe poi risolvere buona parte delle incertezze residue. Il che è in sostanza ciò che ci si aspetta da un percorso di laurea, nonostante le chiacchiere da giornale.

C’è però qualche elemento su cui occorre lavorare. Da un lato, la presenza di alcuni casi di scrittura non ancora all’altezza degli standard professionali. Dall’altro, alcune incertezze sul senso generale dell’operazione. Per esempio, in alcuni casi non sembra che gli studenti inquadrino correttamente il tipo di testo da preparare, e in alcuni casi le relazioni sono addirittura formate dal collage di lunghi brani ripresi da testi già esistenti (di solito, correttamente citati).

Naturalmente, una relazione universitaria per la laurea magistrale dovrebbe essere qualcosa di diverso: un elaborato critico, in cui non ci si limita a riassumere un testo altrui ma si combinano in modo critico fonti di informazione diverse usandole per fornire una risposta a una domanda nuova. Operazioni del genere sono importanti non solo di per sé, come indice della capacità di compiere operazioni complesse, ma anche come addestramento al lavoro: chiunque operi in posizioni da laureato deve essere in grado di fornire pareri combinando giudizi diversi, riscrivere regolamenti o documenti interni combinando in modo intelligente i suggerimenti provenienti da più persone, preparare documentazione completa e coerente, eccetera.

Niente di straordinario in questo. Le cose non si imparano da un giorno all’altro, e se uno studente non ha imparato come funziona un genere di testo, c’è ben poco da fare: occorre spiegarlo e fare esercizi. Su questo spero ci sia la possibilità di lavorare più avanti – anche se dal lato mio, nel prossimo anno accademico non avrò neanche un corso della laurea magistrale, e non avrò quindi modo di mettere alla prova la teoria.

Mi colpisce però che anche in Academically adrift di Arup e Roska (che ho già citato su questo blog) si individui il requisito delle venti pagine come punto di riferimento per gli studenti americani. Anzi, gli autori lo considerano solo un “modest requirement” per un corso serio (loc. 1482), e ritengono che debba essere accoppiato ad almeno 40 pagine settimanali di lettura. Solo il 42% degli studenti da loro esaminati aveva però già seguito almeno un corso con entrambi i requisiti: 50% dei casi non avevano seguito neanche un corso che avesse queste richieste per la scrittura, e in un terzo dei casi non avevano seguito un corso con queste richieste per la lettura. Gli autori ritengono quindi, non irragionevolmente, che questa situazione sia una delle ragioni per cui gli studenti oggetto della loro ricerca ottengono miglioramenti molto lievi in alcune abilità centrali. L’idea degli autori è che, in fin dei conti, gli studenti “learn when they study” (loc. 1901, come citazione da un’analisi precedente), e i risultati delle loro indagini confermano questa idea.

Per questo motivo, ho deciso di portare al mio Consiglio di Corsi di studio una richiesta: compatibilmente con i regolamenti attuali, incoraggiare i docenti a inserire tra i requisiti di ogni esame della magistrale, ogni volta che ciò sia possibile e ragionevole, la stesura di una relazione di almeno venti pagine. I corsi in cui questo si può fare non sono forse moltissimi, ma mi sembra comunque importante spingere in una determinata direzione.

Inoltre, per far funzionare la strategia le prove d’esame devono includere un modo per fornire riscontri agli studenti. Nel caso mio, da molti anni prima di assegnare un voto faccio una valutazione dettagliata di ogni relazione, presento i risultati agli studenti in un colloquio “intermedio” e chiedo di eseguire una serie di interventi, controllando il modo in cui vengono compiuti. Per una relazione di venti pagine ho visto che questo significa in media impiegare un’ora e mezzo per la prima valutazione, venti minuti per il colloquio intermedio, e circa un’ora per il controllo della seconda versione... sono quasi tre ore di lavoro per ogni esame, più l’esame orale vero e proprio. La procedura è molto più onerosa dei classici esami orali (che a Pisa in genere durano da venti a sessanta minuti), ma, anche se non ho riscontri oggettivi sugli effetti, credo che ne valga la pena.

lunedì 3 ottobre 2011

Le lingue della Turchia

Panorma di Ürgüp (Wikipedia)

Come mi è capitato di osservare in diverse occasioni, io credo che ci sia una forte tendenza a sottovalutare la conservatività del linguaggio. Lessico e sintassi si tramandano di regola da una generazione all’altra con minime alterazioni. In diversi punti del mondo, le lingue parlate sono rimaste riconoscibilmente le stesse fin da quando esiste una documentazione storica (dal greco in Grecia fino al cinese in Cina...). Gli scossoni e gli spostamenti, per le popolazioni che vivono di agricoltura, sono rari.

La Turchia però sembra un’eccezione – e ne ho parlato un po’ con gli studenti di Adana. In fin dei conti, oggi in Turchia la lingua dominante è il turco, che è arrivato sul territorio solo a partire dall’XI secolo e ha rimpiazzato una serie di lingue che aveva una storia di millenni. Nella realtà, però, le cose sono un po’ più sfumate. Un po’ perché il turco stesso sembra enormemente conservativo: la guida Lonely Planet che ho usato per il viaggio proclama baldanzosamente che gli attuali turchi di Turchia non hanno problemi a parlare con i turchi che ancora oggi vivono nelle regioni d’origine del gruppo etnico, in Cina e in Mongolia, nonostante appartengano a gruppi che si sono separati da più di un millennio. Probabilmente è un’esagerazione, ma non sarebbe un caso unico, visto per esempio il modo in cui gli italiani riescono a parlare con buona parte delle popolazioni di lingua romanza...

Poi, e soprattutto, solo il 75% della popolazione turca oggi parla turco, al confronto del 95% di italiani che sono in grado di parlare italiano (per questi numeri, che avrebbero bisogno di molte precisazioni, mi rifaccio alle schede di Ethnologue); il restante 25% parla altre lingue, a cominciare dal curdo. Come si è arrivati a questo 75%, comunque?

Oggi la Turchia ha 70 milioni di abitanti, ma nel 1923, al momento dell’indipendenza, ne aveva circa 14 milioni. Secondo alcune stime (e qui faccio riferimento a un pulviscolo di voci di Wikipedia in lingua inglese, a cominciare da quella su Languages of Turkey), questa era anche, più o meno, la popolazione che il territorio aveva attorno all’anno Mille – vedo citate stime sui 12-13 milioni di abitanti. Quando i turchi arrivarono dall’Asia centrale, nel giro di un paio di secoli conquistarono quasi tutta l’Anatolia e poco dopo il 1453 eliminarono anche le ultime tracce di potere bizantino. Ma quanti erano? Stime non ne ho viste, ma a occhio direi che si può andare da un minimo di due-trecentomila fino a due-quattro milioni con le varie ondate e i vari gruppi. C’è un buon margine di errore, ma penso non si sbagli troppo nel dire che il semplice trasferimento fisico degli individui portò le popolazioni di lingua turca a essere, alla fine del Medioevo, un 20-25% del totale degli abitanti.

Dopodiché per riproduzione o assimilazione, i turchi aumentarono. Non credo però che nel 1914 fossero molto più del 50% della popolazione: una crescita non poi così rapida, visto che richiese quasi mezzo millennio di totale dominio politico sul territorio.

Poi arrivò la Prima guerra mondiale. Su quanto avvenne negli anni successivi le cifre sono molto discusse, ma molte stime ritengono che nel 1914 fossero presenti nell’attuale Turchia due milioni di armeni e un milione e mezzo di greci (cioè, assieme, forse un 25% della popolazione complessiva). Dieci anni dopo, queste minoranze erano scomparse. Gli armeni erano stati uccisi o espulsi durante il Genocidio armeno del 1915, mentre, in modo appena meno drastico, con il Trattato di Losanna del 1923 la popolazione greca era stata trasferita in Grecia e in parte sostituita dai turchi residenti in Grecia. Insomma, in soli dieci anni il Novecento portò a uno sconvolgimento demografico paragonabile a quello che si era verificato nel mezzo millennio precedente.

La cosa sconvolgente è che di quest’ultimo trauma le tracce sono ancora oggi ben visibili – almeno se si riesce a parlare un po’ con gli abitanti. Ad Adana si tirano su palazzoni e centri commerciali “dove c’erano le case degli armeni” (che in città erano stati massacrati già nel 1905 – mentre gli ultimi residenti vennero spinti a forza nel 1915 a morire di fame nel deserto della Siria); a Tarso le case ci sono ancora, “anche se gli armeni non ci sono più... qualunque cosa sia successa” (come mi è stato detto...). In Cappadocia, Ürgüp è un villaggio marziano: scavato nella roccia in un panorama incredibile, e sorvolato la mattina da sciami di mongolfiere, come se venisse fuori dall’illustrazione di un libro di fantascienza. Ma era all’origine un villaggio greco, svuotato nel 1923, e il tassista che mi ci ha portato raccontava di come nel 1923 c’era arrivata a piedi la sua famiglia, scacciata da Salonicco, l’Anatolia con mesi e mesi di cammino. “E quella era una chiesa dei greci, ma adesso è stata trasformata in una casa...”

In un mondo di popolazioni sedentarie, le lingue non cambiano in fretta. Quando succede, però, vuol dire che è successo qualcosa di veramente terribile; e, per fortuna, di eccezionale.

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