venerdì 30 settembre 2011

Jacot de Boinod, The meaning of tingo

A volte compaiono libri il cui successo è difficile da spiegare. L’editoria non è una scienza esatta... ma a quale ragione si può ricondurre la diffusione di The meaning of tingo di Adam Jacot de Boinod (sottotitolo: And other extraordinary words from around the world, Penguin, London 2005 – anche in traduzione italiana come Il senso del tingo)?

La semplicità dell’idea certo è stata un fattore. The meaning of tingo vorrebbe essere una raccolta di “wonderful words with no equivalent in the English language” (p. viii). Con questo, l’autore apparentemente intende: “parole che esprimono concetti che non sono espressi da una singola parola in inglese”. Condizione che impressiona molto i non addetti ai lavori, ma che ai linguisti e ai traduttori risulta del tutto normale. Sembra infatti diffusa l’idea che “tutti i concetti più importanti devono una parola dedicata”... ma questa in realtà è solo un’illusione. Per esempio, perfino per le relazioni di base della vita, cioè i legami di parentela, l’italiano moderno non distingue tra “figli dei fratelli o delle sorelle” e “figli dei figli o delle figlie” e chiama tutti, indistintamente, “nipoti”; né d’altra parte riesce a trovare parole per descrivere sinteticamente rapporti tipo “figlio nato da un coniuge poi divorziato” o “ex marito della madre” (per non parlare di mestieri comunissimi, da “donna delle pulizie” in poi). Non c’è quindi da stupirsi se qualche lingua esprime un concetto usando una parola dedicata, e qualche altra usando una perifrasi più o meno fissa.

The meaning of tingo dovrebbe quindi presentare lunghe serie di parole che, come l’italiano sprezzatura (p. 109), pare all’autore non abbiano una traduzione inglese fatta comodamente di una sola parola. L’autore però non è un linguista, e si vede. Né apparentemente la Penguin si è procurata un redattore in grado almeno di smussare gli strafalcioni più vistosi – giusto per dare un’idea, a p. 98 si legge che “Much linguistic research has led to the theory of an Ur-language (Indo-European) spoken some fifty thousand years ago, from which most other languages are descended”... Ma per favore!

La conseguenza più vistosa di questa ignoranza è data dal fatto che la premessa del libro (presentare “parole”) viene immediatamente ignorata. Molte delle “parole” presentate non sono in realtà unità lessicali isolate, ma polirematiche, o frasi fatte, o metafore, o proverbi, eccetera. All’italiano va meglio di altre lingue, ma, giusto per dare un’idea e limitandosi alle “parole” per cui l’autore propone una definizione all’interno di liste, tra i 25 elementi italiani ne troviamo 19 formati da parole uniche:

sventole (17), padella (25), sgasata (41), abbozzare (46), scrostarsi (48), slampadato (63), biodegradabile (66), carezza (69), movimento (71), mammismo (84), capoclaque (88), bustarella (93), sola (93), piottaro (94), squadretta (97), alba (97), sprezzatura (109), segature (110), slappare (120)

Gli altri 6 (cioè ¼ del totale) sono invece espressioni formate da più di una parola, come:

andare in camporella (67), cavoli riscaldati (67), film a luci rosse (182), romanzo rosa (182), andare in bianco (183), al verde (184).

Alla fine, a occhio, in queste pagine ci saranno due o tremila “oggetti” del genere (non ci sono indici delle forme, o delle lingue di riferimento, né strumenti che facilitino la consultazione), prelevati da diverse lingue e raggruppati per aree tematiche costruite, diciamo così, alla buona (tipo Eating and drinking). Nonostante questa sistematica confusione, il libro potrebbe ancora essere interessante dal punto di vista linguistico, come dimostrazione del fatto che tutte le parole del mondo, anche le più strane, si possono tradurre in inglese con una, due, al massimo (e raramente) tre righe di spiegazione. Insomma, potrebbe mostrare che ogni singola parola (o espressione più ampia), per quanto esotico sia il concetto che essa esprime, si rende perfettamente con poche parole inglesi, e che quindi gli esseri umani, tutto sommato, creano i propri vocabolari secondo regole precise e universali.

Diciamo, “potrebbe”. Perché, cosa ovvia date le premesse, il libro è in buona parte una gigantesca farsa anche da questo punto di vista (e, d’altra parte, non è affatto vero che tutte le parole si possano spiegare in tre righe; la terminologia tecnica e scientifica offre infiniti controesempi). Non solo le parole non-inglesi sono presentate “all’inglese”, senza uno straccio di diacritico, ma i significati sono in buona parte sbagliati o inventati o scambiati. Giusto per dare un’idea, quanti italiani chiamano le orecchie larghe “sventole” (come si pretende a p. 17, pensando evidentemente all’espressione “a sventola”)? O pensano che il “mammismo” sia “maternal control and interference that continues in adulthood” (p. 84)?

Insomma, un disastro editoriale. Un mesetto o due di lavoro da parte dell’autore e di un redattore avrebbe permesso di conservare la formula base del testo (tanto irrilevante e vacua quanto di successo), eliminando però gli errori oggettivi. Oh, beh. Chi vuol riflettere sul lessico delle lingue del mondo farà bene a tenersi accuratamente alla larga da questo mucchietto di pagine, che ha più o meno la stessa serietà di quelli che nelle librerie più smaliziate si mettono in posizione strategica accanto alla cassa – roba tipo Coniglietti suicidi, insomma.

2 commenti:

Elisa ha detto...

Se non ricordo male, il libro nasce da una trasmissione della BBC tenuta dall'autore, che è, appunto, un giornalista televisivo.
Preso per quello che è, cioè un testo sfizioso, di quelli che uno raccatta all'ultimo momento alla cassa tanto per spendere qualche euro in più, secondo me contiene esempi davvero interessanti che, al di là di ogni velleità scientifica (lasciamo in pace l'indoeuropeo, per favore!), rendono l'idea della differenza nella concettualizzazione che ritroviamo negli inventari lessicali delle lingue del mondo.
Certo, Whorf era tutta un'altra cosa, e su questo tema ci sono molti studi scientifici (a partire dal classico Women, Fire, and Dangerous Things di Lakoff), ma secondo me basta non avere un orizzonte di attesa troppo elevato nei confronti di qualcosa che è di per sé leggero.

E in ogni caso, I coniglietti suicidi sono un Testo (con T maiuscola) di tutto rispetto! Aspetto la recensione.

Mirko Tavosanis ha detto...

Ciao, Elisa!

In effetti il testo potrebbe essere utile come lista di esempi... ma mi sembra che, purtroppo, la sua utilità da questo punto di vista sia annientata dalla cialtroneria con cui gli esempi sono stati raccolti. Insomma, le definizioni fornite sono di regola inaffidabili... su Amazon questo è un tema ricorrente nei commenti scritti da madrelingua delle diverse lingue interessate. Per esempio, in queste recensioni sono citate percentuali molto alte di errori per turco, tedesco, cinese, serbo-croato:

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Insomma, un peccato, perché la formula avrebbe potuto funzionare benissimo anche se applicata in modo competente... non c'era bisogno di questa cialtroneria. Mh, ci si chiede come sarebbe un libro del genere se scritto da una persona competente - una che magari si occupi professionalmente di terminologia :-)

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