sabato 6 agosto 2011

Cuban, Oversold and underused


Personalmente, credo di essere un sostenitore entusiasta delle possibilità dell’informatica e delle tecnologie della comunicazione. Che non solo hanno prodotto, e produrranno, innovazioni fondamentali, ma promettono di fornire prima o poi novità strutturali tali da cambiare la condizione umana.

Mi sembra però necessario evitare illusioni in settori in cui ormai si sono accumulate esperienze utili. Per esempio, nella didattica: sono quasi quarant’anni che l’informatica viene presentata da varie parti, e con varie motiviazioni, come la “soluzione” dei “problemi” didattici. Senza però produrre risultati di rilievo.

Parere soggettivo? Un bilancio autorevole in questo senso è stato prodotto dieci anni fa da Larry Cuban nel libro Oversold and underused (Harvard University Press, Harvard, 2001). E proprio il tempo trascorso dalla pubblicazione del lavoro conferma la sua utilità, visto che alcuni degli errori (sì, ormai possiamo definirli così) discussi da Cuban continuano a essere ripetuti, con poche variazioni. Dovremmo aver superato questo stadio da un pezzo, e invece no...

Ma quali sono, in dettaglio, le conclusioni del libro? E i modi in cui sono state prodotte? E le cause ipotizzate per la soluzione descritta?


Le conclusioni

Il titolo sintetizza correttamente i contenuti del libro: i computer sono stati venduti alle scuole, per decenni, come macchine fondamentali per la didattica – ma non hanno mantenuto le promesse.

Più in dettaglio, Cuban analizza il modo in cui, negli Stati Uniti, gruppi di pressione eterogenei hanno portato negli anni Ottanta e Novanta all’acquisto di enormi quantità di computer in vista di tre obiettivi:

1. rendere le istituzioni educative e didattiche più efficienti e produttive (100: qui e altrove i rinvii sono fatti alla “location” del testo del libro su Kindle)
2. trasformare l’insegnamento e l’apprendimento in processi coinvolgenti, attivi e connessi alla vita reale (112)
3. preparare i giovani a usare l’informatica per i lavori del futuro (120).

Negli anni Novanta gli sforzi di questa coalizione “have been extraordinarily successful in generating federal, statal, and local funds for building the necessary technological infrastructure within schools” (126; per esempio, nel solo 1996 l’amministrazione Clinton stanziò due miliardi di dollari per l’informatizzazione delle scuole).

I risultati di questi investimenti devono viceversa essere in buona parte “tagged as failures” (1624). Per il terzo punto, Cuban dice che non c’è un consenso su che cosa sia l’alfabetizzazione informatica utile e su quale sia stato l’eventuale contributo delle scuole per diffonderla (1609: il discorso, devo dire, mi sembra un po’ fumoso). Per gli altri due punti, viceversa, ci sono delle certezze: i risultati scolastici non sono migliorati e i metodi didattici non sono cambiati – concetto che viene riproposo in diversi punti dei capitoli conclusivi (per esempio, a 1714 e 1770: sì, il libro è piuttosto ripetitivo...).

L’assenza di risultati non ha però impedito al processo di acquisto di continuare. Cuban nota giustamente che l’opinione pubblica americana ritiene che avere computer nelle scuole sia importante, e i responsabili non hanno quindi nessuna possibilità di resistere a questa “tidal wave of opinion” (1742), anche se l’acquisto di computer significa spesso la rinuncia a interventi meno fascinosi ma più importanti, come per esempio la ristrutturazione fisica delle scuole o la riduzione del numero di studenti per classe (1754).

Che cosa succede poi ai computer acquistati? Spesso rimangono sottoutilizzati o chiusi all’interno di laboratori informatici che vengono usati solo da una minoranza di docenti. Conclusione che non viene ricavata dai soliti “mi pare” o “gli amici mi raccontano...” ma da una ricerca sul campo, condotta su un campione di istituzioni educative della Silicon Valley e che rappresenta un contributo importante alla discussione.


Le modalità della ricerca

I dettagli del modo in cui i computer sono stati sottoutilizzati variano molto da ambiente ad ambiente. In modo del tutto ragionevole, Cuban li discute parlando in capitoli separati di “preschools and kindergartens” (cap. 2), scuole del “K-12” americano (dalle elementari alle superiori: cap. 3) e università (cap. 4). Per esempio, nelle scuole materne, non sorprendentemente, il computer è integrato alla pari con altre aree di attività – perlomeno nei rari casi in cui il docente ha un serio interesse nei confronti dello strumento.

I tratti comuni sono però più numerosi e interessanti delle differenze. Cuban riassume quindi in questo modo, nel cap. 5, alcuni risultati inattesi:

gli insegnanti non sembrano in nessun caso tecnofobi, e anzi spesso sono entusiasti della tecnologia
i computer sono usati poco per la didattica
quando sono usati, lo sono per attività marginali
meno del 5% degli studenti e dei docenti fa un uso serio e integrato del computer

E soprattutto, in relazione ai punti 1 e 2 della lista di sopra (1206):

“we found no clear and substantial evidence of students increasing their academic achievement as a result of using information technologies”
“The overwhelming majority of teachers employed the technology to sustain existing patterns of teaching, rather than to innovate”


Le possibili cause

Le cause di questa situazione non sono affatto facili da individuare. Cuban propone tre spiegazioni, non reciprocamente esclusive:

1. The slow revolution (1378): per una rivoluzione ci vuole tempo, e diversi fattori rendono le scuole lente a cambiare
2. The historical, societal, organizational and poliical contexts of teaching (1412): storia e contesto spingono le scuole verso la stabilità
3. Contextually constrained choice (1513): il lavoro dell’insegnante è complesso e deve rispondere a richieste contraddittorie, il che rende molto difficile individuare soluzioni tecnologiche valide in ogni circostanza.

Cuban propende che la spiegazione più importante sia la 3, che però non viene mai presentata in modo molto chiaro. Tuttavia, sorprendentemente, non presenta mai una quarta possibile spiegazione aggiuntiva, semplice e potente: che i computer siano strutturalmente inadatti a facilitare il lavoro didattico. Non gli sfugge il fatto che in alcuni settori, come la gestione delle ricette mediche, la normale compilazione a mano si sia rivelata superiore rispetto a procedure più sofisticate (1361). Tuttavia uno degli elementi più vistosi del quadro – il fatto che i docenti abbiano adottato rapidamente i computer a casa o (nel caso universitario) per la ricerca, ma si siano dimostrati molto riluttanti a usarli in aula – non viene mai trattato in quest’ottica.

Per quanto mi riguarda, negli ultimi tre decenni (!) io ho cercato di attenermi una regola di base, priva di giustificazione empirica ma molto funzionale: creare un’attività didattica al computer richiede il triplo (di tempo o di soldi) rispetto al creare la stessa attività per una lezione in presenza. Se qualche caratteristica del lavoro giustifica l’investimento, bene. Altrimenti... pazienza.

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