martedì 30 agosto 2011

Una visita al Museo della carta e della filigrana


La settimana scorsa ho fatto una gita "di famiglia" nelle Marche, e ne ho approfittato per passare anche dal Museo della carta e della filigrana a Fabriano. C'ero già stato qualche anno fa, ma non ero riuscito a sentire la visita guidata: quest'anno invece ce l'ho fatta.

Il Museo naturalmente non è fatto solo di visita guidata. Basta dire che, se ho ben capito le spiegazioni, espone una (piccolissima) parte di filigrane estratte dalla collezione Zonghi: cosa non da poco per chi, come me, un po' di lavoro su Zonghi's Watermarks ha dovuto farlo (nel dettaglio, a proposito della filigrana del manoscritto Vaticano Latino 3210, che ospita la prima stesura delle Prose di Bembo). Ma la parte storica e documentaria purtroppo mi è sembrata sacrificata - poche indicazioni per gli specialisti, mentre se non sbaglio il grosso della collezione Zonghi è alla Biblioteca di Fabriano.

OK, pazienza. Il museo appunto è interessante per le attività didattiche, e la visita guidata offre la possibilità di vedere all'opera diversi strumenti per la produzione della carta. Io personalmente ne sono rimasto affascinato, come buona parte dei bambini - e forse degli adulti - presenti. In particolare, c'è il momento magico: quello in cui uno degli addetti del Museo infila un setaccio con filigrana in una grossa tinozza di acqua sporca e ne estrae... praticamente un foglio di cellulosa, pronto per essere pressato, asciugato e trasformato in carta. Un processo del tutto elementare, ma comunque sorprendente.

Detto questo, l'appetito vien mangiando. Chissà che un anno o l'altro, fatta la visita guidata, non mi riesca di partecipare a uno dei laboratori pratici di produzione e lavorazione della carta...

martedì 23 agosto 2011

Gli studenti americani non imparano nulla?

Doonesbury è da trent’anni uno dei miei fumetti preferiti. Uno dei motivi per cui mi piace è che il suo creatore Garry Trudeau si inserisce in pieno in una grande tradizione americana: dire, costantemente, cose intelligenti sul mondo. Non si tratta di fare sceneggiate, invettive, grandi sfoghi retorici. No: cose intelligenti. Il che implica anche, come corollario: cose documentate.

Doonesbury è nato quarant’anni fa come fumetto universitario. Si è distaccato molto da questa base, ma chi scrive e disegna in questo modo, negli Stati Uniti, deve regolarmente fare i conti con l’università. I lettori affezionati di Doonesbury si trovano quindi a seguire spesso le vicende del Walden College, l’università frequentata quarant’anni fa dai primi personaggi della serie e in cui oggi si trovano a vivacchiare alcuni degli esponenti della generazione più giovane del cast. Nel frattempo, il Walden College ha preso la fisionomia di eminente “remedial school”: il posto in cui anche i peggiori studenti possono essere tranquillamente ammessi (purché paghino), i voti sono tutti A, si rimanda la laurea il più possibile e nell’attesa non si studia assolutamente nulla.

In linea con questa filosofia, la tavola domenicale di Doonesbury del 14 agosto 2011 mostra il rettore del Walden College alle prese con uno zelante collaboratore che gli mostra i dati di un’indagine recente: dal punto di vista del pensiero critico, della capacità di condurre ragionamenti complessi e della capacità di scrittura, quasi la metà degli studenti americani sembra non ricavi nessun guadagno dai propri studi universitari. La risposta del rettore è cinica, ma, dal punto di vista sociale, secondo Trudeau, un filino inadeguata...

A quale indagine fa però riferimento l’autore? Il fumetto non ha note esplicative, ma direi senz’altro al lavoro condotto da Richard Arum e Josipa Roska i cui risultati sono contenuti nel libro Academically adrift, da cui riprendo le informazioni proposte qui di seguito (i rinvii sono riferiti, al solito, alla location su Kindle). Diciamo poi subito che Trudeau sintetizza benissimo il nucleo del libro. Arum e Roska da un campione di 2322 studenti universitari (loc. 509), provenienti da 24 college di diverso tipo. Le capacità di ogni studente del gruppo sono state misurate poi due volte: nel semestre autunnale del 2005 e in quello primaverile del 2007. In entrambi i casi, gli autori hanno usato per la misurazione il test CLA (Collegiate learning assessment: 529), che è uno strumento pensato appunto per misurare general skills di alto livello – il che significa, in sostanza, comprensione di problemi complessi ma non specialistici, e capacità di scrittura. Agli studenti vengono forniti documenti che riguardano situazioni inventate ma verosimili (per esempio: a un’azienda conviene comprare un determinato tipo di aereo?), e viene chiesto di scrivere al computer, in 90 minuti, una risposta articolata e adeguata.

Ciò che Arum e Roska intendevano misurare non era tanto il livello assoluto degli studenti – la cui adeguatezza è sempre discutibile – quanto il miglioramento. Due anni di università migliorano le prestazioni? La risposta, un po’ sconcertante per alcuni, è: solo nella metà dei casi. Nell’altra metà, il punteggio ottenuto al CLA non migliora.

Gli autori naturalmente precisano che ciò non significa che gli studenti non imparino nulla. Ciò che il CLA misura “is far from the totality of learning or the full repertoire of skills acquired in higher education” (2181). Un medico o un ingegnere possono imparare un sacco di nozioni utili, anche se la loro capacità di comprendere un problema complesso non migliora. Però l’idea che l’università debba anche insegnare a pensare è diffusa negli Stati Uniti (meno, direi, in Italia). E gli autori insistono non a torto sul fatto che le abilità misurate sono comunque key skills:

One could hardly argue that we would not want teachers who are educating our children, or business majors who might be responsible for applying home mortgage loans, to develop the capacity to think critically or reason analitically (2188).

In effetti... ma il discorso degli autori è molto articolato, e merita un post a parte. Anche perché, cosa che mi riguarda direttamente, l’aspetto interessante del CLA è che, come buona parte dei test PISA, misura la capacità basandosi sulla comprensione del testo e sulla capacità di scrittura. In un momento in cui sono impegnato a preparare buona parte dei test d’ingresso per la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa, la lettura del libro di Arum e Roska si rivela quindi particolarmente stimolante.

martedì 16 agosto 2011

Christensen, Horn e Johnson, Disrupting class

La lezione di Oversold and underused non è passata del tutto inosservata. Tra i libri che ne hanno tenuto conto, mi sembra rappresentativo e interessante Disrupting class: how disruptive innovation will change the way the world learns (McGraw Hill, New York etc., 2008; DOI: 10.1036/0071592067; 0071641742).

Il libro è interessante anche dal punto di vista editoriale. È dedicato alla scuola statunitense (e in particolare alla fascia d’età corrispondente alle scuole superiori italiane), ma l’autore messo in evidenza in copertina è uno specialista di business, Clayton M. Christensen, “bestselling author of The innovator’s dilemma”, affiancato da Michael B. Horn e Curtis W. Johnson. E la struttura riprende quella di molti libri di business, alternando la discussione teorica a scenette narrative con personaggi immaginari che dovrebbero dare concretezza alle idee del libro (tecnica che, di regola, trovo piuttosto antipatica). Soprattutto, però, Disrupting class presenta in tono molto manualistico, e senza discussione, alcune “conclusioni” essenziali che nella realtà non sono affatto sicure quanto gli autori vorrebbero – il che mina alla radice le pur interessanti proposte fatte.

Alcuni dei presupposti del libro sono comunque condivisibili. Perché oggi le scuole americane, nonostante i cospicui investimenti e la lunga esperienza, non raggiungono gli obiettivi formativi loro assegnati? Gli autori propongono diverse cause ragionevoli, a cominciare dal fatto che nelle scuole americane oggi sono numerosi gli studenti provenienti da minoranze che storicamente hanno avuto scarsi risultati scolastici (il 35%) o che non parlano l’inglese come lingua madre (il 20%). Tuttavia, l’attenzione degli autori va soprattutto al problema della motivazione, e su questo concordo anch’io: in una società di diffuso benessere (e, aggiungo io, in cui il titolo di studio è una garanzia di progresso sociale meno forte rispetto al passato), gli studenti e le loro famiglie hanno meno motivazioni estrinseche per studiare.

La soluzione proposta dagli autori per questo problema è comunque semplice: “schooling can and should be an intrinsically motivating experience” (368). Al momento non lo è perché “every student learns in a different way” (384). Gli autori scelgono su questo punto di rifarsi a Howard Gardner – definito, un po’ troppo entusiasticamente, come “il primo” ad aver immaginato qualcosa del genere – e alla sua idea che esistano otto tipi fondamentali di intelligenza (651; per esempio, l’intelligenza linguistica, quella matematica, quella cinestetica – cioè del movimento e dello sport – eccetera...), i quali tipi poi si combinano con “different learning styles” e “different paces” (686).

Il problema quindi sta nel fatto che le scuole attuali, “monolitiche”, non possono adattarsi ai bisogni di ogni singolo studente. Per raggiungere l’obiettivo basta invece “to customize an education to match the way every child best learns” (384), usando un “computer-based learning” destinato a essere “student-centric” (849).

Nel capitolo terzo, sulla scorta appunto della lezione di Cuban, si nota che per raggiungere questo obiettivo non basta comunque portare i computer a scuola. Oggi i computer sono dappertutto, ma la didattica non è mutata quasi in nulla rispetto a qualche decennio fa. Se vent’anni fa le ricerche si facevano sulle enciclopedie e si battevano a macchina, oggi si fanno su Internet e si scrivono al computer... ma la sostanza del lavoro non è cambiata (1400). Occorre quindi un nuovo approccio, “disruttivo” (disruptive), in cui i computer siano usati in modo diverso – e, all’inizio, senza entrare in conflitto con la didattica tradizionale, ma semplicemente integrandola. L’importante è che venga creata appunto una tecnologia centrata sullo studente, “in which software has been developed that can help students learn each subject in a manner that is consistent with their type of intelligence and learning style” (1722).

Gli autori entrono poi molto in dettaglio sulle modalità con cui l’innovazione dovrebbe diffondersi. Per esempio, individuano come area ideale d’intervento i cosiddetti corsi Advanced Placement delle scuole superiori americane, che non tutte le istituzioni sono oggi in grado di offrire in tutte le aree possibili; e il ragionamento non è sbagliato (personalmente, lavorando anche come direttore di un consorzio che ha l’obiettivo di offrire didattica della lingua e cultura italiana via Internet là dove non ci sarebbero possibilità didattiche “tradizionali”, lo trovo anzi del tutto corretto). Dopodiché, però, analizzando i dati di diffusione, gli autori arrivano a fare speculazioni molto molto discutibili, e perfino a proporre un modello matematico che suggerisce che, una volta che i primi corsi online avranno fatto da cavalli di Troia, negli Stati Uniti “by 2019 [!], about 50 percent of high school courses will be delivered online” (1831). Vogliamo scommettere che la percentuale sarà molto più bassa? E magari più vicina al 5 che al 50%?

Come esempio comunque di innovazione, gli autori citano due esempi. Uno reale, di un “laboratorio chimico virtuale” (!!!), anche se pudicamente dicono che “it is not as good, perhaps, as doing the experiments hands-on” (1936: un bell’esempio di understatement). E poi, cosa che mi interessa in modo più diretto, un corso per l’apprendimento della lingua cinese. Corso effettivamente molto bello, così come viene descritto, ma del tutto ipotetico, e lontanissimo da ciò che oggi si può tecnicamente realizzare (1950).

Già: chi realizzerà i materiali didattici necessari? E chi deciderà quali sono i più adatti per ogni singolo studente? Con ammirevole certezza, gli autori diconoche:

The tools of the [future] software platform will make it so simple to develop online learning products that students will be able to build products that help them teach other students. Parents will be able to assemble tools to tutor their children. And teachers will be able to create tools to help the different types of learners in their classrooms... [eccetera] (2422).

Certo, non bisogna sottovalutare la potenza di ciò che gli autori definiscono “facilitated user networks” (2309); Wikipedia è lì a ricordarci che si possono costruire cose fantastiche, in questo modo. Ma la creazione di materiali didattici è molto, molto complicata... E non per ragioni “tecniche” di allestimento dei materiali. Si può insegnare bene a una persona in presenza, ma costruire buoni esercizi, o buone spiegazioni, per l’uso al computer è tutto un altro paio di maniche, e i non addetti ai lavori sottovalutano sistematicamente questo genere di problemi. Si pensi solo a un corso di lingua: per poter presentare alcune strutture avanzate, occorre che gli esempi presentino lessico che è già stato conosciuto dagli studenti, ed evitino di far ricorso a costruzioni che non siano già note, eccetera. Un’enciclopedia è strutturalmente modulare; un percorso di studi lo è fino a un punto molto limitato, anche se gli autori sembrano convinti del contrario.

Dando viceversa per scontato che realizzare e assegnare materiali didattici sia un gioco da ragazzi, gli autori passano quindi a occuparsi di altri problemi: la necessità di parlare molto con i bambini fin dal primo anno di vita, la scarsa utilità delle ricerche didattiche, e via dicendo... E concludono con suggerimenti pratici su come far adottare alle scuole la loro rivoluzione.

Che cosa c’è di interessante, in questa analisi? Di sicuro, l’enfasi data alle caratteristiche individuali di chi studia. Però, non è detto che la soluzione indicata sia generalizzabile. Rispetto al sistema attuale, soprattutto, quanto è più vantaggiosa una personalizzazione spinta? Abbastanza da giustificare un investimento? Gli autori lo danno per scontato, ma non c’è alcuna prova che sia così. A quale punto la personalizzazione è vantaggiosa, a livello di sistema scolastico? A quale punto smette di esserlo?

Beh, non lo sa nessuno.

La mia impressione è che la personalizzazione sia sì vantaggiosa, ma entro limiti piuttosto stretti. Quali sono questi limiti? Non lo so. Cosa sorprendente (ma forse non tanto...) per un libro scritto da chi si occupa di business, Disrupting class non tenta però di fornire in proposito neanche la più elementare analisi costi-benefici, né di quantificazione. Nella sostanza, quindi, quanta comprensione fa guadagnare un corso “personalizzato” di matematica al computer, rispetto a un corso tradizionale? C’è un vantaggio dimostrabile? Ci sono corsi di matematica che riescano per esempio a insegnare un dato assieme di abilità e competenze anche a chi ha la famosa intelligenza “cinestetica”? E quanto sono flessibili le intelligenze? E sono proprio otto, come sostiene Gardner? (cosa di cui è lecito dubitare...). Eccetera eccetera. Per un numero incredibilmente alto di variabili quantitative, da questo libro non arriva nemmeno un accenno di inquadramento. Il che significa che il testo può valere come rassegna di spunti, ma non ha un gran valore predittivo.

Un esempio pratico: certo, è bene che lo studio sia motivante di per sé, ma arriva il momento in cui si smette di studiare, e in cui ci si accorge che la propria motivazione intrinseca ha portato a qualche anno di studio interessante, ma anche a un vicolo cieco lavorativo. Oppure è verosimile che per esempio, per un qualche strano scherzo del mondo, la natura umana sia organizzata in modo da generare tante “intelligenze cinestetiche” o “linguistiche” quante ne sono necessarie in ogni particolare congiuntura economica? In ogni fase di sviluppo? E se ne producesse, per esempio, di più del necessario? Per carità, è chiaro che entro certi limiti la domanda crea l’offerta, e via dicendo. Ma quanti allenatori di pallavolo e quanti ballerini professionisti possono trovare impiego, anche nelle migliori circostanze, in una società postindustriale? È chiaro che per il prevedibile futuro il grosso delle richieste lavorative riguarderà attività di ben altro genere e premierà ben altre “intelligenze”. Insomma, che lo si voglia o no, software o non software, ci sarà quindi sempre una spinta del tutto legittima a fare cose per cui non si è “portati”, usando strumenti che non sono ottimali per noi.

E allora, qual è la differenza rispetto a oggi? Enorme o marginale? Su questo punto, la risposta più corretta è appunto: non lo sappiamo. I dati possono giustificare sia un estremo scetticismo sia un estremo ottimismo, ma Disrupting class non prende in minima considerazione questo aspetto, sostituendo la discussione critica con aneddoti presi dal mondo dell’industria ed esempi inventati.

Nota a margine: la stessa idea di fondo, nella più grezza forma del “facciamo studiare solo chi è portato a farlo”, rappresenta la proposta “teorica” base di Togliamo il disturbo di Paola Mastrocola. L’idea che una società possa decidere di spingere in una direzione, invece di farsi trascinare dalle soluzioni di minor resistenza, oggi pare poco popolare, su entrambe le sponde dell’Atlantico.

sabato 13 agosto 2011

Intervista su Start, Radio Rai

Mecoledì 10 agosto Francesca Rinaldi mi ha intervistato per il programma Start di Radio Rai (primo canale) a proposito di italiano del web e italiano contemporaneo. L'intervista è breve, ma è disponbile nel podcast della trasmissione (verso i tre quarti), scaricabile dal sito Rai.

sabato 6 agosto 2011

Cuban, Oversold and underused


Personalmente, credo di essere un sostenitore entusiasta delle possibilità dell’informatica e delle tecnologie della comunicazione. Che non solo hanno prodotto, e produrranno, innovazioni fondamentali, ma promettono di fornire prima o poi novità strutturali tali da cambiare la condizione umana.

Mi sembra però necessario evitare illusioni in settori in cui ormai si sono accumulate esperienze utili. Per esempio, nella didattica: sono quasi quarant’anni che l’informatica viene presentata da varie parti, e con varie motiviazioni, come la “soluzione” dei “problemi” didattici. Senza però produrre risultati di rilievo.

Parere soggettivo? Un bilancio autorevole in questo senso è stato prodotto dieci anni fa da Larry Cuban nel libro Oversold and underused (Harvard University Press, Harvard, 2001). E proprio il tempo trascorso dalla pubblicazione del lavoro conferma la sua utilità, visto che alcuni degli errori (sì, ormai possiamo definirli così) discussi da Cuban continuano a essere ripetuti, con poche variazioni. Dovremmo aver superato questo stadio da un pezzo, e invece no...

Ma quali sono, in dettaglio, le conclusioni del libro? E i modi in cui sono state prodotte? E le cause ipotizzate per la soluzione descritta?


Le conclusioni

Il titolo sintetizza correttamente i contenuti del libro: i computer sono stati venduti alle scuole, per decenni, come macchine fondamentali per la didattica – ma non hanno mantenuto le promesse.

Più in dettaglio, Cuban analizza il modo in cui, negli Stati Uniti, gruppi di pressione eterogenei hanno portato negli anni Ottanta e Novanta all’acquisto di enormi quantità di computer in vista di tre obiettivi:

1. rendere le istituzioni educative e didattiche più efficienti e produttive (100: qui e altrove i rinvii sono fatti alla “location” del testo del libro su Kindle)
2. trasformare l’insegnamento e l’apprendimento in processi coinvolgenti, attivi e connessi alla vita reale (112)
3. preparare i giovani a usare l’informatica per i lavori del futuro (120).

Negli anni Novanta gli sforzi di questa coalizione “have been extraordinarily successful in generating federal, statal, and local funds for building the necessary technological infrastructure within schools” (126; per esempio, nel solo 1996 l’amministrazione Clinton stanziò due miliardi di dollari per l’informatizzazione delle scuole).

I risultati di questi investimenti devono viceversa essere in buona parte “tagged as failures” (1624). Per il terzo punto, Cuban dice che non c’è un consenso su che cosa sia l’alfabetizzazione informatica utile e su quale sia stato l’eventuale contributo delle scuole per diffonderla (1609: il discorso, devo dire, mi sembra un po’ fumoso). Per gli altri due punti, viceversa, ci sono delle certezze: i risultati scolastici non sono migliorati e i metodi didattici non sono cambiati – concetto che viene riproposo in diversi punti dei capitoli conclusivi (per esempio, a 1714 e 1770: sì, il libro è piuttosto ripetitivo...).

L’assenza di risultati non ha però impedito al processo di acquisto di continuare. Cuban nota giustamente che l’opinione pubblica americana ritiene che avere computer nelle scuole sia importante, e i responsabili non hanno quindi nessuna possibilità di resistere a questa “tidal wave of opinion” (1742), anche se l’acquisto di computer significa spesso la rinuncia a interventi meno fascinosi ma più importanti, come per esempio la ristrutturazione fisica delle scuole o la riduzione del numero di studenti per classe (1754).

Che cosa succede poi ai computer acquistati? Spesso rimangono sottoutilizzati o chiusi all’interno di laboratori informatici che vengono usati solo da una minoranza di docenti. Conclusione che non viene ricavata dai soliti “mi pare” o “gli amici mi raccontano...” ma da una ricerca sul campo, condotta su un campione di istituzioni educative della Silicon Valley e che rappresenta un contributo importante alla discussione.


Le modalità della ricerca

I dettagli del modo in cui i computer sono stati sottoutilizzati variano molto da ambiente ad ambiente. In modo del tutto ragionevole, Cuban li discute parlando in capitoli separati di “preschools and kindergartens” (cap. 2), scuole del “K-12” americano (dalle elementari alle superiori: cap. 3) e università (cap. 4). Per esempio, nelle scuole materne, non sorprendentemente, il computer è integrato alla pari con altre aree di attività – perlomeno nei rari casi in cui il docente ha un serio interesse nei confronti dello strumento.

I tratti comuni sono però più numerosi e interessanti delle differenze. Cuban riassume quindi in questo modo, nel cap. 5, alcuni risultati inattesi:

gli insegnanti non sembrano in nessun caso tecnofobi, e anzi spesso sono entusiasti della tecnologia
i computer sono usati poco per la didattica
quando sono usati, lo sono per attività marginali
meno del 5% degli studenti e dei docenti fa un uso serio e integrato del computer

E soprattutto, in relazione ai punti 1 e 2 della lista di sopra (1206):

“we found no clear and substantial evidence of students increasing their academic achievement as a result of using information technologies”
“The overwhelming majority of teachers employed the technology to sustain existing patterns of teaching, rather than to innovate”


Le possibili cause

Le cause di questa situazione non sono affatto facili da individuare. Cuban propone tre spiegazioni, non reciprocamente esclusive:

1. The slow revolution (1378): per una rivoluzione ci vuole tempo, e diversi fattori rendono le scuole lente a cambiare
2. The historical, societal, organizational and poliical contexts of teaching (1412): storia e contesto spingono le scuole verso la stabilità
3. Contextually constrained choice (1513): il lavoro dell’insegnante è complesso e deve rispondere a richieste contraddittorie, il che rende molto difficile individuare soluzioni tecnologiche valide in ogni circostanza.

Cuban propende che la spiegazione più importante sia la 3, che però non viene mai presentata in modo molto chiaro. Tuttavia, sorprendentemente, non presenta mai una quarta possibile spiegazione aggiuntiva, semplice e potente: che i computer siano strutturalmente inadatti a facilitare il lavoro didattico. Non gli sfugge il fatto che in alcuni settori, come la gestione delle ricette mediche, la normale compilazione a mano si sia rivelata superiore rispetto a procedure più sofisticate (1361). Tuttavia uno degli elementi più vistosi del quadro – il fatto che i docenti abbiano adottato rapidamente i computer a casa o (nel caso universitario) per la ricerca, ma si siano dimostrati molto riluttanti a usarli in aula – non viene mai trattato in quest’ottica.

Per quanto mi riguarda, negli ultimi tre decenni (!) io ho cercato di attenermi una regola di base, priva di giustificazione empirica ma molto funzionale: creare un’attività didattica al computer richiede il triplo (di tempo o di soldi) rispetto al creare la stessa attività per una lezione in presenza. Se qualche caratteristica del lavoro giustifica l’investimento, bene. Altrimenti... pazienza.

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