giovedì 28 luglio 2011

Le conseguenze inattese della tecnologia

Gli studi di storia economica forniscono molte lezioni interessanti sui rapporti tra cultura e tecnologia; dai due libri che ho citato nelle ultime settimane (Pomeranz e Clark) mi sembra giusto estrarre almeno un’ultima indicazione: le conseguenze inattese di una tecnologia sul tenore di vita.

Una cosa su cui gli studi moderni concordano, in effetti, è che le più significative innovazioni culturali degli ultimi millenni non hanno migliorato, fino a pochi secoli fa, il tenore di vita – e hanno molto peggiorato il modo in cui gli esseri umani, in media, vivono. L’agricoltura, innanzitutto: come nota soprattutto Clark, gli agricoltori tradizionali lavoravano molto di più dei cacciatori-raccoglitori. In molte culture e in molti periodi si superano le dieci ore al giorno, perdipiù con attività pesanti e svolte in condizioni di alimentazione insufficiente. Al confronto, gli attuali cacciatori-raccoglitori devono “lavorare” qualcosa come cinque-sei ore al giorno (anche se ovviamente moltissimo dipende dall’ambiente in cui vivono); e tra gli animali più vicini a noi alcune specie di scimmie impiegano nelle attività indispensabili quattro ore al giorno o giù di lì.

(tra parentesi, ammetto che finora, a differenza degli economisti, non mi ero mai chiesto quale fosse l’orario medio di lavoro delle varie razze di scimmie... ma l’orario medio di lavoro dei felini è chiaramente ancora più ridotto...)

Inoltre, come già detto, le condizioni materiali di vita degli agricoltori pre-industriali non sembra fossero affatto migliori di quelle dei cacciatori-raccoglitori, nonostante ciò che per secoli è stato scritto sull’argomento. Adam Smith fin dalle prime pagine dlla Ricchezza delle nazioni metteva “the savage nations of hunters and fishers” a contrasto con le “civilized and thriving nations” concludendo che in queste ultime

a workman, even of the lowest and poorest order, if he is frugal and industrious, may enjoy a greater share of the necessaries and conveniencies of life than it is possible for any savage to acquire (Introduction)

In realtà invece sembra che la situazione fosse ben diversa, e che perfino nelle parti più ricche d’Europa la media della popolazione avesse standard di vita più bassi (come speranza media di vita, calorie consumate, tempo a disposizione, varietà della dieta e via dicendo) rispetto alle popolazioni di cacciatori-raccoglitori che è possibile studiare oggi, e a ciò che i dati archeologici ci dicono sulle popolazioni del passato. Conseguentemente, fino all’Ottocento, i gruppi di europei che entravano in contatto con i “selvaggi” si trovavano a perdere spesso gente per strada: persone che, a cominciare dagli ammutinati del Bounty, evidentemente ritenevano che il professor Smith non avesse poi tutta quella gran ragione, e che a prendere la strada della foresta loro personalmente avessero molto da guadagnare e poco da perdere.

Oggi, naturalmente, il fascino della vita selvaggia sembra assai più ridotto di un tempo. Una curiosa testimonianza di prima mano è quella di Lawrence Osborne, che nel Turista nudo ha raccontato pochi anni fa delle sue (non idilliache) esperienze in Nuova Guinea e in particolare del terrificante livello di violenza che generalmente si incontra in queste società – in alcuni degli studi usati da Clark come base per il suo lavoro, l’omicidio risulta la prima causa di morte tra i cacciatori-raccoglitori. Però, anche se non al punto di indurre a mollare tutto, un po’ di fascino persiste. I racconti di Daniel Everett sono particolarmente da questo punto di vista, con il contrasto tra la visione a-religiosa e rilassata dei pirahã amazzonici e l’enorme diversità del tenore di vita (in un punto particolarmente spiazzante, Everett racconta di amici pirahã che, ricevendo foto e lettere da parte di un vecchio missionario che li aveva visitati decenni prima, chiedono perplessi: “ma gli americani non muoiono mai?”).

Resta però il fatto che, come fa notare Clark, i progressi medici oggi consentono la sopravvivenza di grandi masse di popolazione a tenore di vita bassissimo – al punto che oggi vivono, come viene dichiarato nelle prime pagine del suo libro, sia le persone più ricche che siano mai esistite, sia le più povere. In sostanza, quindi, l’avvento dell’agricoltura ha peggiorato, fino a tempi recentissimi, il modo in cui in media gli esseri umani vivevano – ma ha permesso l’esplosione della popolazione, e ha fatto sì che, in sostanza, le società agricole arrivassero a sostituire i cacciatori-raccoglitori in quasi tutto il mondo. Fino al punto in cui, dopo millenni di lavoro nei campi, non è arrivata la civiltà industriale a permettere un balzo in avanti senza precedenti... Quello che negli ultimi decenni è possibile vedere negli affascinanti grafici animati di Gapminder.

Lezione fondamentale da queste meditazioni a largo raggio: affrontare i problemi del rapporto tra cultura e tecnologia richiede una grande umiltà intellettuale. Per questo motivo, ultimamente, quando sento dire che “i computer” o “l’educazione” sono la soluzione per tutto, o la causa di tutti i problemi, sbuffo un po’. Raramente i problemi complessi hanno soluzioni semplici.


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