venerdì 3 giugno 2011

Dorandi, conclusione

Riassumo qui di seguito i capitoli 3-7 del libro di Dorandi.


Capitolo 3 – Tra autografia e dettato

Le osservazioni fatte nei capitoli precedenti permettono di chiedersi, dice Dorandi, “se, nell’antichità classica greca e latina, gli autori scrivessero di propria mano le loro opere, almeno le prime stesure di esse”. La risposta “è in larga misura negativa” (p. 47), e questo, direi, contribuisce non poco a differenziare il loro modo di lavorare da quello dei moderni.

Secondo Dorandi “la scrittura autografa di un testo letterario cominciò a propagarsi in maniera sistematica nel mondo bizantino (...) e nel Medioevo occidentale” (p. 47). In entrambi i casi gli esempi citati sono tutti posteriori al Mille – e Dorandi cita a questo proposito anche Armando Petrucci, che ha da tempo indicato nell’attività di autografia dei notai una possibile base per questo cambio di metodo.

Che cosa ci permette di dire che, prima del Mille, era raro che i testi letterari venissero scritti direttamente dall’autore? In parte, la mancanza di autografi. Oggi gli unici autografi letterari sicuramente identificabili come tali sono “i brogliacci del poeta e notaio (...) Dioscoro di Afroditopoli, in Alto Egitto”, vissuto nel VI secolo d. C.” (p. 48), e quindi già medievale. “Una ventina di papiri” hanno però buone possibilità di essere autografi, e Dorandi li descrive brevemente, uno per uno, alle pp. 48-50, assieme a diversi altri casi meno sicuri (pp. 50-51). Dorandi passa poi a mostrare esempi letterari che descrivono il lavoro di poeti di basso profilo, concludendo che “la pratica di una scrittura autografa non era apparentemente riservata ai grandi poeti (Plauto, Orazio, Ovidio), ma appare comune anche ai poeti meno illustri, descritti mentre stanno riempiendo tavolette o membranae dei loro versi, come Eumolpo nel Satyricon di Petronio” (p. 52). Fin qui, insomma, non ci si distacca troppo dal modo di lavorare dei moderni – anche se mi ha colpito la breve descrizione, lasciata da Svetonio, dei tormentati autografi poetici di Nerone.

Ci si distacca dalle pratiche di oggi quando si nota che sembra fosse “una pratica ugualmente corrente” anche “la dettatura di versi” (p. 53), a volte integrata con correzioni autografe. Molti autori in prosa, a cominciare da Plinio il Vecchio, dettavano, e questa “era la pratica preferita nella redazione di opere erudite e tecniche” (p. 54). Per le lettere “la scrittura autografa era [invece] pratica corrente, anche se spesso limitata all’apposizione della firma.

Tuttavia, Dorandi precisa che l’ipotesi della “normalità” della dettatura dei testi poetici, anche se accettata da molti studiosi, ha ancora avversari (p. 56); e che comunque (allora come oggi, aggiungo io) “la scelta della scrittura autografa o del dettato dipendeva spesso da esigenze pratiche e situazioni personali e soggettive” (p. 55). Su un altro fronte, Quintiliano disapprovava la dettatura perché “poteva produrre testi sciatti e improvvisati” (p. 56).

Interessante anche la risposta a una domanda formulata da Gualtiero Calboli su un argomento connesso: “C’era un rapporto, nell’antichità, tra la pratica della composizione sotto dettatura di un testo letterario e l’abitudine di leggere i libri a voce alta?” (p. 57). La risposta, dice Dorandi, è: sì (p. 58). Però la discussione di questo rapporto è poi minimale, in quanto fatta solo dal rimando a Guglielmo Cavallo e alla sua idea che la composizione dotata di una componente orale (sussurro mentre si scriveva, o dettatura) fosse funzionale a un testo destinato all’ascolto. Null’altro. Da questo punto di vista, comunque, Dorandi si mantiene nel quadro più accettato oggi dagli studiosi, e di cui ho parlato a lungo anche qui: nell’antichità la lettura avveniva normalmente ad alta voce, ma non era strano che, ogni tanto, qualcuno leggesse in silenzio.


Capitolo 4 - “Queste opere non sono scritte per la pubblicazione”

Dorandi descrive qui le due possibilità aperte a un autore antico: “riservare alcuni suoi scritti a un circolo ristretto di allievi e amici oppure pubblicarli” (p. 65). In alcuni casi, inoltre, gli scritti rivolti a un pubblico ristretto non venivano rivisti tanto a fondo quanto quelli destinati a una circolazione più ampia (p. 69). Dorandi ritiene però che questi due tipi di circolazione potessero basarsi su “pratiche compositive differenti” (p. 76) e che la stesura definitiva fosse distinta dalla “presentazione del testo dal punto di vista tecnico-librario: un tipo di scrittura più elegante, una messa in colonna più accurata, una revisione” (p. 77).


Capitolo 5 – La pubblicazione di un libro

Dorandi qui tratta il momento in cui l’autore decideva di rendere la propria opera disponibile al pubblico e incominciava a diffonderne il testo (p. 83). In sostanza, a un certo punto l’autore “metteva in circolazione” il libro (p. 85). Seguono esempi di questa pratica, con molta attenzione a Galeno. Al centro si trova comunque la fase della correzione (p. 88); inoltre, “pubblicare” nella pratica poteva significare molte cose – per esempio, “leggere un libro davanti a un pubblico” (p. 89), ma soprattutto “il ricorso a un editore che si incaricava della copia di libri e della loro diffusione” (p. 90). Quest’ultimo, perlomeno nel mondo romano e a partire dal I sec. a. C., sembra fosse “il sistema più comune di pubblicazione” (p. 90), anche se erano frequenti pratiche di altro tipo; fatto di cui dovrebbero tener debito conto oggi gli apologeti dell’autopubblicazione. Comunque, i libri dovevano essere poi copiati: sotto dettatura o meno (p. 91), e con affidabilità variabile; Dorandi fornisce alcune testimonianze affascinanti su simili pratiche. Tre pagine successive (da metà 93 a 96) sono poi dedicate al problema delle “edizioni pirata” e a quello connesso della pubblicazione di opere “che un autore non aveva completato o rivisto in maniera definitiva” (p. 94).

Al termine del capitolo Dorandi sintetizza in questo modo (pp. 96-97) le “tappe” della pubblicazione:

  1. “in una prima fase si leggevano le fonti, se ne prendevano appunti, si preparavano raccolte di estratti; seguiva la redazione del testo. Si cominciava con l’elaborazione di brogliacci, di prime stesure di un’opera (...)

  2. La redazione scritta di un’opera poteva essere riservata a una diffusione ristretta, limitata a uno o più amici o discepoli che l’avevano sollecitata (...)

  3. Un autore poteva decidere di pubblicare (...) i suoi libri. Riprendeva allora i propri brogliacci e le proprie stesure preliminari per rimaneggiarne il contenuto, la forma e lo stile, mettervi un ordine, correggerle, farle copiare in bella” per la diffusione tra il pubblico.

Devo dire però che, sulla base di quanto scritto da Dorandi stesso, questa “tripartizione” non mi convince molto: le fasi 2 e 3 potevano benissimo, mi sembra, essere alternative e non in sequenza.


Capitolo 6 - “Voce dal sen fuggita / più richiamar non vale”

Nell’antichità, la diffusione di un’opera pubblicata, scrive Dorandi, “non aveva nulla di sistematico” (p. 103). Chi voleva, la copiava. Dziatzko, dice Dorandi, ricostruisce la situazione in questo modo: “nell’antichità non esisteva né diritto d’autore, nel senso che non c’era nessuna legge che poteva dare luogo a un ricorso in giustizia da parte dell’autore – o dei suoi aventi diritto – per quanto concerneva la sua opera letteraria una volta che questa era stata pubblicata” (p. 104). Ovvero, secondo Simmaco: “Oratio publicata res libera est”. L’“unica testimonianza dell’antichità greco-romana di una sanzione giudiziaria del plagio letterario” (p. 105) è in effetti, secondo Dorandi, un episodio raccontato da Vitruvio e avvenuto nel Museo di Alessandria ai tempi di Tolomeo V Epifane – con lo smascheramento di alcuni plagiatori di poesie, a opera di Aristofane di Bisanzio. Nulla invece si dice su sanzioni non giuridiche... argomento di cui da anni spero di potermi occupare, a proposito dell’editoria del Cinquecento italiano.

Del resto, ogni tanto qualche forma di controllo saltava fuori. Secondo una notizia riferita da Diogene Laerzio, tra il quarto e il terzo secolo a. C. chi voleva leggere alcune delle opere di Platone doveva chiedere a pagamento il permesso ai membri dell’Accademia che ne avevano una copia e che proibivano ulteriori trascrizioni (pp. 104-105).

A p. 106 si cambia bruscamente argomento, discutendo dell’esistenza di “esemplari d’apparato”, più eleganti degli altri. Nelle pagine successive si discute l’esistenza di “preedizioni” preliminari delle opere; e da qui comincia un lungo discorso sulle varianti d’autore. “Seconde edizioni” di opere già pubblicate sono testimoniate fin dalle Sentenze cnidie del V secolo a. C. (pp. 109-110); altri esempi greci vanno da Aristofane al per me ignoto Paolo di Alessandria (p. 111), eccetera... mentre per i latini c’è il ben noto, e discusso, caso delle Georgiche (p. 113). Il capitolo si conclude con esempi tratti dai papiri di Ercolano.


Capitolo 7 – Anche i libri hanno il loro destino

Capitolo dedicato al “problema affascinante delle varianti d’autore” (p. 123). Molto difficili però da identificare come tali, al punto che oggi, se ben intendo, non c’è nessun caso che sia considerato indubitabile. Diadori comunque riassume così la questione (pp. 136-137):

È evidente che non possiamo pretendere una certezza assoluta nel dimostrare che varianti specifiche di una parte della tradizione di alcuni testi dell’antichità risalga[no] alla mano stessa del loro autore e non a interventi seriori (...). Bisogna tuttavia evitare di cadere in aprioristiche esclusioni del problema o in stereotipe ripetizioni di luoghi comuni relativi a differenze troppo marcate fra l’antichità e le realtà del Medioevo e del mondo moderno.

E su questo il libro si chiude.

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