mercoledì 29 giugno 2011

Chua, Il ruggito della mamma tigre

Il libro, devo ammettere, un po’ mi indispone fin dal titolo italiano: le tigri non ruggiscono mica... (e, com’è ovvio, l’idea si trova solo in traduzione, il titolo originale essendo The Battle Hymn of the Tiger Mother, 2011). Tuttavia, il volume pubblicato quest’anno da Sperling & Kupfer mi è capitato in mano per caso e, siccome di recente se ne è parlato molto, in un paio di serate me lo sono letto.

Non è stato neanche uno sforzo eccessivo: il volume è composto da duecentotrentacinque pagine stampate a caratteri molto grandi. E anche il contenuto è facile da sintetizzare. L’autrice è una docente universitaria di diritto a Yale, sposata con un collega, e il libro racconta il modo in cui la coppia ha educato le due figlie. Educazione che è consistita nel mettere al bando gli svaghi inutili, imporre regole strette e far studiare la musica. Fino al punto in cui una delle due figlie non è diventata una violinista di fama prima di raggiungere i quattordici anni.

Tutto qui? Sì. La storia in sostanza si potrebbe riassumere con : “grazie a un’educazione rigorosa, la figlia di una famiglia ricca diventa una violinista prodigio”. E giustamente il lettore potrebbe commentare: embè?

Il punto è che il libro viene oggi presentato come un’opera che, dice uno strillo in copertina, “ha trasformato in incendio la scintilla del dubbio che serpeggia nelle famiglie: siamo diventati troppo accomodanti con i nostri figli?” Bella domanda, però la risposta, in Italia come negli Stati Uniti, è in buona parte dipendente dal contesto.

Troppo accomodanti?” Per alcuni gruppi sociali la risposta è: certamente sì. Non mi sembra ci siano seri studi di settore, ma a occhio paiono molto diffuse nelle classi medie italiane le situazioni in cui i genitori fanno i compiti a casa insieme ai figli, o addirittura al posto loro (una scenetta divertente di questo tipo viene descritta anche nell’ultimo, brutto pamphlet di Paola Mastrocola). Evidentemente, c’è gente che ha troppo tempo libero tra le mani... Ma non si riduce tutto a questo.

Certo, diversi studi riferiscono che negli Stati Uniti per esempio il tempo che gli studenti dedicano a studiare si è molto ridotto, negli ultimi anni. E se esistessero studi simili in Italia, probabilmente descriverebbero una situazione non troppo diversa. Ma si tratta di essere diventati “troppo accomodanti”? Amy Chua non ha troppi dubbi e descrive una situazione in cui mettere i figli al lavoro è una scelta culturale. In pagine che immagino scritte per un pubblico di madri americane di fascia di reddito non molto elevata (in cui ogni tanto si fanno balenare quadretti di uno stile di vita ricco e prestigioso, fatto di viaggi all’estero e capricci soddisfatti), c’è l’esaltazione della cultura “asiatica” o “cinese” basata sul lavoro e la critica della cultura americana del perder tempo e “socializzare”. Benissimo. Personalmente non ho dubbi sul fatto che imparare a fare cose difficili dia più soddisfazione, alla lunga, rispetto a stare a ciondolare nel mall – o, nel caso italiano, sulle panchine della piazza. Si tratta però davvero di una contrapposizione tra etiche del lavoro diverse?

Ne dubito. C’è la cultura – ma, come secoli di marxismo per fortuna ci ricordano – a volte la cultura è sovrastruttura (questo, almeno, dovremmo averlo imparato). Se i ragazzi americani studiano meno, è perché i genitori li viziano? Oppure perché, per ampie fasce di popolazione, studiare di più è inutile, dal punto di vista pratico? Una volta lo studio era condizione necessaria e sufficiente per svolgere determinati mestieri. Ora, a parte alcune aree difficili e competitive, lo studio non è più sufficiente. Giusto per fare l’esempio che tocca più direttamente il mio settore, in Italia un laureato in lettere non ha più, quasi automaticamente, un posto da insegnante, come viceversa succedeva fino alla fine degli anni Ottanta. Certo, i bravi emergono comunque – ma appunto si tratta di eccezioni, non della migrazione di massa che si è vista dalle nostre parti fino alla fine degli anni Ottanta.

Insomma, se scompare il meccanismo premiante, molti si chiedono: ma chi me lo fa fare? La risposta giusta è, ovviamente, che l’impegno è un bene di per sé, che produce conseguenze importantissime a livello di capacità personali, e così via. Ma tutto questo è molto remoto e molto meno invitante rispetto al posto-fisso-dopo-la-laurea. Non credo quindi che l’atteggiamento descritto nel libro – con punte grottesche – possa di per sé portare molto lontano. Può andar bene come modo per ispirare i singoli (certo, chi ha bisogno di farsi ispirare allo studio da un libro del genere non parte da una posizione di vantaggio...), ma non è difficile vedere i limiti del sistema. Soprattutto quando l'obiettivo non è imparare a suonare uno strumento ma sviluppare capacità critiche, per esempio nella lettura e nella scrittura.

Più che un modello culturale generalizzabile, insomma, il libro descrive capricci individuali (quanti "posti" di violinista prodigio esistono, in fin dei conti?). Da una docente universitaria, autrice di due studi articolati, ci si aspetterebbe una riflessione un filino più profonda, anche all'interno di un libro evidentemente pensato per un pubblico di basso profilo.


martedì 21 giugno 2011

Web e grammatica sul sito Treccani


Sul sito Treccani.it, sezione "Magazine", è appena stato pubblicato uno Speciale dal titolo: Grammatica italiana: dove, quale, per chi. Al suo interno, assieme a interventi di Luca Serianni, Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, compare anche un mio breve contributo su L'italiano (e la grammatica) nel web, con una rassegna di ciò che si può trovare appunto sul web a proposito di grammatica italiana - inclusi gli spazi in cui si discute di lingua e grammatica.

domenica 19 giugno 2011

venerdì 17 giugno 2011

Varia da Wired



Alcuni articoli interessanti che ho letto ultimamente su Wired.com:

  • Michael Parsons spiega perché i tablet ancora non vanno bene per prendere appunti, e io concordo perfettamente, come si vede dall'esempio qui accanto (realizzato con Penultimate su iPad 2); giusto per dare un esempio, le o che traccio sullo schermo sono alte 6 millimetri circa, contro i 2 millimetri della mia normale scrittura su carta...
  • John C. Abell recensisce il Nook Touch, che sembra un buon esempio di accoppiamento tra touchscreen e inchiostro elettronico
  • Molto pertinente rispetto ai problemi di misurazione: il lavoro di Stephen Jay Gould sulle misurazioni craniali di Ottocento e Novecento si è rivelato sbagliato e fuorviante (e alcune delle sue conclusioni lo sono altrettanto).

mercoledì 15 giugno 2011

Presentazione lunedì: L'italiano del web

Lunedì 20, ore 17.30, alla Libreria Feltrinelli di Pisa in Corso Italia, Michele Cortelazzo presenterà L'italiano del web. Sarà presente (ovviamente!) anche l'autore...

Nel frattempo, ho scoperto che una recensione-riassunto del libro è stata pubblicata da Fiorella Ferrari su Conquiste del lavoro, il settimanale della CISL . Il testo della recensione è disponibile attraverso due file Pdf: uno per la prima pagina e uno per la seconda pagina.

domenica 5 giugno 2011

Impegni ICoN


Uno dei motivi per cui gli aggiornamenti del blog sono abbastanza sporadici: ai miei normali impegni di lavoro si è aggiunto, dall'inizio di aprile, il ruolo di direttore del Consorzio ICoN. La quantità di lavoro connessa è, diciamo, elevata. Però ovviamente si tratta di una grande soddisfazione!

ICoN è un consorzio di università italiane che ha una missione ben precisa: "promuovere e diffondere la lingua e la cultura dell'Italia nel mondo attraverso tecnologie telematiche e specifiche iniziative didattiche". A questo scopo, eroga da anni un corso di laurea triennale in Lingua e cultura italiana per stranieri (on line) e produce e distribuisce corsi di lingua.

Vale la pena di notare che un approccio del genere alla promozione della lingua italiana è uno dei pochi che abbia senso. Spesso capita di sentire interventi che interpretano la "difesa" della lingua italiana come il dare contro ad altre lingue: proibire le interferenze, combattere l'inglese e così via. L'idea alla base di ICoN è praticamente opposta: fornire qualcosa in più, dando un modo per studiare la lingua e la cultura italiana a chi non avrebbe la possibilità di arrivarci attraverso altri canali.

Sono quindi molto soddisfatto e orgoglioso di poter dare un contributo a un'iniziativa del genere.

venerdì 3 giugno 2011

Dorandi, conclusione

Riassumo qui di seguito i capitoli 3-7 del libro di Dorandi.


Capitolo 3 – Tra autografia e dettato

Le osservazioni fatte nei capitoli precedenti permettono di chiedersi, dice Dorandi, “se, nell’antichità classica greca e latina, gli autori scrivessero di propria mano le loro opere, almeno le prime stesure di esse”. La risposta “è in larga misura negativa” (p. 47), e questo, direi, contribuisce non poco a differenziare il loro modo di lavorare da quello dei moderni.

Secondo Dorandi “la scrittura autografa di un testo letterario cominciò a propagarsi in maniera sistematica nel mondo bizantino (...) e nel Medioevo occidentale” (p. 47). In entrambi i casi gli esempi citati sono tutti posteriori al Mille – e Dorandi cita a questo proposito anche Armando Petrucci, che ha da tempo indicato nell’attività di autografia dei notai una possibile base per questo cambio di metodo.

Che cosa ci permette di dire che, prima del Mille, era raro che i testi letterari venissero scritti direttamente dall’autore? In parte, la mancanza di autografi. Oggi gli unici autografi letterari sicuramente identificabili come tali sono “i brogliacci del poeta e notaio (...) Dioscoro di Afroditopoli, in Alto Egitto”, vissuto nel VI secolo d. C.” (p. 48), e quindi già medievale. “Una ventina di papiri” hanno però buone possibilità di essere autografi, e Dorandi li descrive brevemente, uno per uno, alle pp. 48-50, assieme a diversi altri casi meno sicuri (pp. 50-51). Dorandi passa poi a mostrare esempi letterari che descrivono il lavoro di poeti di basso profilo, concludendo che “la pratica di una scrittura autografa non era apparentemente riservata ai grandi poeti (Plauto, Orazio, Ovidio), ma appare comune anche ai poeti meno illustri, descritti mentre stanno riempiendo tavolette o membranae dei loro versi, come Eumolpo nel Satyricon di Petronio” (p. 52). Fin qui, insomma, non ci si distacca troppo dal modo di lavorare dei moderni – anche se mi ha colpito la breve descrizione, lasciata da Svetonio, dei tormentati autografi poetici di Nerone.

Ci si distacca dalle pratiche di oggi quando si nota che sembra fosse “una pratica ugualmente corrente” anche “la dettatura di versi” (p. 53), a volte integrata con correzioni autografe. Molti autori in prosa, a cominciare da Plinio il Vecchio, dettavano, e questa “era la pratica preferita nella redazione di opere erudite e tecniche” (p. 54). Per le lettere “la scrittura autografa era [invece] pratica corrente, anche se spesso limitata all’apposizione della firma.

Tuttavia, Dorandi precisa che l’ipotesi della “normalità” della dettatura dei testi poetici, anche se accettata da molti studiosi, ha ancora avversari (p. 56); e che comunque (allora come oggi, aggiungo io) “la scelta della scrittura autografa o del dettato dipendeva spesso da esigenze pratiche e situazioni personali e soggettive” (p. 55). Su un altro fronte, Quintiliano disapprovava la dettatura perché “poteva produrre testi sciatti e improvvisati” (p. 56).

Interessante anche la risposta a una domanda formulata da Gualtiero Calboli su un argomento connesso: “C’era un rapporto, nell’antichità, tra la pratica della composizione sotto dettatura di un testo letterario e l’abitudine di leggere i libri a voce alta?” (p. 57). La risposta, dice Dorandi, è: sì (p. 58). Però la discussione di questo rapporto è poi minimale, in quanto fatta solo dal rimando a Guglielmo Cavallo e alla sua idea che la composizione dotata di una componente orale (sussurro mentre si scriveva, o dettatura) fosse funzionale a un testo destinato all’ascolto. Null’altro. Da questo punto di vista, comunque, Dorandi si mantiene nel quadro più accettato oggi dagli studiosi, e di cui ho parlato a lungo anche qui: nell’antichità la lettura avveniva normalmente ad alta voce, ma non era strano che, ogni tanto, qualcuno leggesse in silenzio.


Capitolo 4 - “Queste opere non sono scritte per la pubblicazione”

Dorandi descrive qui le due possibilità aperte a un autore antico: “riservare alcuni suoi scritti a un circolo ristretto di allievi e amici oppure pubblicarli” (p. 65). In alcuni casi, inoltre, gli scritti rivolti a un pubblico ristretto non venivano rivisti tanto a fondo quanto quelli destinati a una circolazione più ampia (p. 69). Dorandi ritiene però che questi due tipi di circolazione potessero basarsi su “pratiche compositive differenti” (p. 76) e che la stesura definitiva fosse distinta dalla “presentazione del testo dal punto di vista tecnico-librario: un tipo di scrittura più elegante, una messa in colonna più accurata, una revisione” (p. 77).


Capitolo 5 – La pubblicazione di un libro

Dorandi qui tratta il momento in cui l’autore decideva di rendere la propria opera disponibile al pubblico e incominciava a diffonderne il testo (p. 83). In sostanza, a un certo punto l’autore “metteva in circolazione” il libro (p. 85). Seguono esempi di questa pratica, con molta attenzione a Galeno. Al centro si trova comunque la fase della correzione (p. 88); inoltre, “pubblicare” nella pratica poteva significare molte cose – per esempio, “leggere un libro davanti a un pubblico” (p. 89), ma soprattutto “il ricorso a un editore che si incaricava della copia di libri e della loro diffusione” (p. 90). Quest’ultimo, perlomeno nel mondo romano e a partire dal I sec. a. C., sembra fosse “il sistema più comune di pubblicazione” (p. 90), anche se erano frequenti pratiche di altro tipo; fatto di cui dovrebbero tener debito conto oggi gli apologeti dell’autopubblicazione. Comunque, i libri dovevano essere poi copiati: sotto dettatura o meno (p. 91), e con affidabilità variabile; Dorandi fornisce alcune testimonianze affascinanti su simili pratiche. Tre pagine successive (da metà 93 a 96) sono poi dedicate al problema delle “edizioni pirata” e a quello connesso della pubblicazione di opere “che un autore non aveva completato o rivisto in maniera definitiva” (p. 94).

Al termine del capitolo Dorandi sintetizza in questo modo (pp. 96-97) le “tappe” della pubblicazione:

  1. “in una prima fase si leggevano le fonti, se ne prendevano appunti, si preparavano raccolte di estratti; seguiva la redazione del testo. Si cominciava con l’elaborazione di brogliacci, di prime stesure di un’opera (...)

  2. La redazione scritta di un’opera poteva essere riservata a una diffusione ristretta, limitata a uno o più amici o discepoli che l’avevano sollecitata (...)

  3. Un autore poteva decidere di pubblicare (...) i suoi libri. Riprendeva allora i propri brogliacci e le proprie stesure preliminari per rimaneggiarne il contenuto, la forma e lo stile, mettervi un ordine, correggerle, farle copiare in bella” per la diffusione tra il pubblico.

Devo dire però che, sulla base di quanto scritto da Dorandi stesso, questa “tripartizione” non mi convince molto: le fasi 2 e 3 potevano benissimo, mi sembra, essere alternative e non in sequenza.


Capitolo 6 - “Voce dal sen fuggita / più richiamar non vale”

Nell’antichità, la diffusione di un’opera pubblicata, scrive Dorandi, “non aveva nulla di sistematico” (p. 103). Chi voleva, la copiava. Dziatzko, dice Dorandi, ricostruisce la situazione in questo modo: “nell’antichità non esisteva né diritto d’autore, nel senso che non c’era nessuna legge che poteva dare luogo a un ricorso in giustizia da parte dell’autore – o dei suoi aventi diritto – per quanto concerneva la sua opera letteraria una volta che questa era stata pubblicata” (p. 104). Ovvero, secondo Simmaco: “Oratio publicata res libera est”. L’“unica testimonianza dell’antichità greco-romana di una sanzione giudiziaria del plagio letterario” (p. 105) è in effetti, secondo Dorandi, un episodio raccontato da Vitruvio e avvenuto nel Museo di Alessandria ai tempi di Tolomeo V Epifane – con lo smascheramento di alcuni plagiatori di poesie, a opera di Aristofane di Bisanzio. Nulla invece si dice su sanzioni non giuridiche... argomento di cui da anni spero di potermi occupare, a proposito dell’editoria del Cinquecento italiano.

Del resto, ogni tanto qualche forma di controllo saltava fuori. Secondo una notizia riferita da Diogene Laerzio, tra il quarto e il terzo secolo a. C. chi voleva leggere alcune delle opere di Platone doveva chiedere a pagamento il permesso ai membri dell’Accademia che ne avevano una copia e che proibivano ulteriori trascrizioni (pp. 104-105).

A p. 106 si cambia bruscamente argomento, discutendo dell’esistenza di “esemplari d’apparato”, più eleganti degli altri. Nelle pagine successive si discute l’esistenza di “preedizioni” preliminari delle opere; e da qui comincia un lungo discorso sulle varianti d’autore. “Seconde edizioni” di opere già pubblicate sono testimoniate fin dalle Sentenze cnidie del V secolo a. C. (pp. 109-110); altri esempi greci vanno da Aristofane al per me ignoto Paolo di Alessandria (p. 111), eccetera... mentre per i latini c’è il ben noto, e discusso, caso delle Georgiche (p. 113). Il capitolo si conclude con esempi tratti dai papiri di Ercolano.


Capitolo 7 – Anche i libri hanno il loro destino

Capitolo dedicato al “problema affascinante delle varianti d’autore” (p. 123). Molto difficili però da identificare come tali, al punto che oggi, se ben intendo, non c’è nessun caso che sia considerato indubitabile. Diadori comunque riassume così la questione (pp. 136-137):

È evidente che non possiamo pretendere una certezza assoluta nel dimostrare che varianti specifiche di una parte della tradizione di alcuni testi dell’antichità risalga[no] alla mano stessa del loro autore e non a interventi seriori (...). Bisogna tuttavia evitare di cadere in aprioristiche esclusioni del problema o in stereotipe ripetizioni di luoghi comuni relativi a differenze troppo marcate fra l’antichità e le realtà del Medioevo e del mondo moderno.

E su questo il libro si chiude.

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