sabato 30 aprile 2011

Aggiornamento: corsivo a mano e corsivo tipografico


Vedo per caso che l'articolo del New York Times di cui scrivevo ieri è stato ripreso il 29 aprile anche dal Corriere della sera in un articolo del corrispondente da New York, Alessandra Farkas (p. 55 dell'edizione su carta).

Le modalità della ripresa, peraltro, sono quelle tipiche del giornalismo italiano di seconda mano. Il grosso del pezzo è costituito dalla traduzione e parafrasi dell'articolo originale. L'autrice aggiunge però osservazioni e considerazioni proprie, che sono - di nuovo, secondo regola - spesso sbagliate. Il principale motivo d'errore è semplice: in Italia si parla di corsivo sia per la scrittura a mano sia per un determinato tipo di carattere tipografico. Sono oggetti diversi, e naturalmente i dizionari li distinguono con attenzione. Nel dizionario di De Mauro, per esempio, i primi due significati della parola corsivo sono:

1. grafia usata comunemente quando si scrive a mano (corrispondente, aggiungo io, all'inglese cursive)

2. (Termine specialistico della tipografia) carattere inclinato verso destra, comunemente usato per dare risalto ad una parte di testo (corrispondente, aggiungo io, all'inglese
italic)

Dopodiché, Alessandra Farkas scrive del "tramonto del corsivo, chiamato 'Italic' dagli anglosassoni poiché fu introdotto per la prima volta in Italia nel 1501 [in realtà, 1500] dal principe degli stampatori, Aldo Manuzio". Naturalmente no: l'articolo del Times si riferisce al tramonto del cursive, non a quello dell'italic (parola che non compare mai nel pezzo originale).

Nel resto dell'articolo italiano si parla poi della scuola americana, che chiede "agli alunni, fin dalle elementari, di usare lo stampatello, anche quando scrivono a mano, anziché al computer". Vero, purché si precisi che in Italia lo stampatello ("carattere di scrittura manuale a lettere staccate che imita il carattere della stampa": sempre De Mauro) significa in pratica le lettere maiuscole, perché a scuola si insegnano, di regola, solo le maiuscole romane e la scrittura inglese tonda. Nelle scuole americane invece si parte di regola con l'insegnamento del cosiddetto printing, o block letters: alfabeti completi di maiuscole e minuscole che imitano i caratteri tipografici senza grazie (mentre il corsivo inizia solo in terza elementare e, come spiega l'articolo originale, oggi spesso termina lì). Il printing a mano degli americani è quindi, di regola, molto più sofisticato dello "stampatello" italiano.

venerdì 29 aprile 2011

La fine del corsivo?

Un argomento che è saltato fuori in una lezione poco tempo fa: gli americani sanno leggere i testi scritti a mano in corsivo? Di frequente, no. Il solito New York Times pubblica ora un interessante articolo di Katie Zezima su questo fenomeno (The case for cursive).

Nell'articolo si presenta tra l'altro il problema delle firme "troppo facili da copiare" cui ricorre chi non ha pratica di corsivo; e si dice, ma senza fornire dati più precisi, che "quasi tutti" gli americani firmano ancora in corsivo, ma in modo spesso illeggibile. Ancora più affascinanti sono poi i commenti dei lettori sulle proprie esperienze di fronte a persone che non sanno scrivere in corsivo, o leggere il quadrante di un orologio con lancette, o scrivono a mano usando solo matite e mai penne...

(Una nota a margine: chi arriva all'articolo da un link come quello inserito sopra non fa neanche scattare il contatore dei 20 articoli mensili concessi ai non abbonati, direi. Il paywall del New York Times è in piedi, ma lascia un numero talmente alto di eccezioni che mi chiedo quale possa essere l'impatto pratico sulle abitudini dei lettori.)

martedì 26 aprile 2011

I test PISA e la lettura

Il 9 dicembre 2010 sono stati pubblicati i risultati degli ultimi test PISA, organizzati dall'OCSE. I test misurano le conoscenze e le competenze degli studenti quindicenni che appartengono a 34 paesi membri dell'OCSE + 40 esterni. Al momento, i test PISA rappresentano anche la maggiore massa di dati direttamente confrontabili su questi aspetti.

Dal punto di vista pratico, i test sono stati ripetuti ogni tre anni a partire dal 2003; le edizioni del 2000 e del 2009 (che è quella di cui sono appena usciti i risultati) si concentravano sull'area della "lettura" e sono quindi per me di particolare interesse. Curata dall'INVALSI, la versione italiana dei test è stata somministrata a circa 31.000 studenti. Purtroppo non è stata inclusa una sezione dei test (ERA) specificamente dedicata alla lettura su supporto elettronico, ma i risultati sono comunque molto interessanti.

È chiaro che test di questo genere non vanno presi per oro colato. Il test PISA è molto orientato alla risoluzione di problemi, cosa che lo rende bersaglio di critiche da parte di molti teorici della conoscenza "pura". La conoscenza "pura" è cosa bellissima, ed è certo che la vita non si riduce a una continua risoluzione di problemi; ma al momento non esistono alternative serie al test PISA e, in attesa che i detrattori propongano e riescano a mettere in funzione un sistema di valutazione più valido, questo abbiamo e su questo ci basiamo.

Quali sono i risultati? Non troppo lusinghieri per i sistemi formativi, che vedono per esempio scendere la media OCSE in lettura da 500 punti nel 2000 a 493 nel 2009: un calo minimo (1,4%), ma a fronte di una spesa aumentata. Per l'Italia poi le cose vanno peggio: anche se nel decennio la situazione italiana è rimasta più o meno inalterata, l'ultimo punteggio nazionale di 486, quindi 7 punti al di sotto della media.

È una catastrofe? Non proprio: questo è piuttosto uno dei tanti casi in cui il bicchiere può essere visto come mezzo pieno o mezzo vuoto. Da un lato, i risultati non sono un gran che, soprattutto a confronto con altri paesi. Dall'altro, un'occhiata a un campione dei test somministrati ai lettori fa passare le velleità catastrofiste. Nella sezione "lettura", il test PISA non richiede di leggere "r-u-o-t-a" o qualcosa di simile: fa domande piuttosto sofisticate, e gli scettici ne possono vedere un campione per esempio nell'Appendice 1 del Rapporto nazionale PISA 2009. E magari provare anche a rispondere...

sabato 16 aprile 2011

Mastrocola, Togliamo il disturbo


Ogni tanto, quando la massa del lavoro arretrato mette sgomento, per ritrovare un po' di carica vado in cerca di un libro sbagliato. Il tipo di libro, insomma, di cui so in anticipo che dopo tre pagine mi verrà voglia di gettarlo contro il muro.

Funziona? Direi di sì. Dopo tre pagine di Togliamo il disturbo (Paola Mastrocola, Milano, Guanda, 2011) mi sono messo a sbuffare, e poi ho riattaccato il lavoro con nuova energia, per sfogare la rabbia. Poi altre tre pagine, e una nuova dose. E poi altre tre ancora...

Che cos'è, comunque, Togliamo il disturbo? Secondo il sottotitolo, è un Saggio sulla libertà di non studiare. Il sottotitolo, però, inganna. La "libertà di non studiare" occupa una piccola parte del testo; il quale, soprattutto, non è un "saggio", cioè, secondo la definizione del vocabolario di De Mauro, un'"opera breve e sintetica in prosa, condotta in modo oggettivo e razionale, su un argomento scientifico, filosofico, politico, letterario o di costume". Non lo è perché non è un testo condotto in modo oggettivo e razionale. È una tirata retorica ben poco collegata ai fatti.

I motivi per cui parlar male di questo libro sono tanti. Certo, come spesso accade, all'interno di un'impostazione del tutto sbagliata il libro dice anche cose giuste (per esempio, ribadendo l'importanza della "parola" contro l'idea, piuttosto diffusa oggi, che la cultura punti inequivocabilmente nella direzione delle "immagini"). Però ciò non toglie che nelle parti restanti ci sia l'imbarazzo della scelta.

Qual è il punto chiave? Non è tanto chiaro. L'autrice rende chiaro il suo desiderio: insegnare la propria materia ("italiano" alle scuole superiori) con competenza (cosa lodevole) e senza troppo curarsi degli effetti sugli studenti. Le sembra inoltre che questo sia nuovo e rivoluzionario... ma in effetti, a ben vedere, è ciò che ancora oggi fa, con esiti spesso non esaltanti, in molte università italiane. Non c'è quindi gran che di nuovo, in questo modo di lavorare - se non il fatto che l'autrice propone di estenderlo a ogni ordine di scuola, a partire dalle elementari (senza apparentemente realizzare il fatto che si tratta di una diffusione di un sistema già usato altrove: di università, in questo libro, non si parla praticamente mai, il che è un filino sorprendente).

Sull'efficacia complessiva di questo approccio mi sento di esprimere, per usare un garbato eufemismo, qualche dubbio.

Comunque, il libro, com'è ovvio, parla molto di lingua italiana. E in particolare ribadisce un concetto: che gli studenti dell'autrice non conoscono la lingua. Ohibò. Da altre fonti non risulta, anzi, risulta che quasi tutti gli italiani, oggi, a quindici anni, sono in grado di parlare e scrivere italiano. Eppure si dice esattamente questo: che "i ragazzi non sanno più l'italiano" (p. 17).

In base a quale documentazione? L'autrice dice subito (p. 13) che nella sua scuola, un liceo scientifico, a un test di ingresso basato su "dettato ortografico, esercizi di punteggiatura, analisi grammaticale e analisi logica", "negli ultimi cinque o sei anni" nessuno dei suoi studenti ottiene una sufficienza. E che, anche in seguito, gli studenti non recuperano le lacune.

Sarà vero? Tutto dipende da molti fattori: dalla scuola di provenienza degli studenti, dagli studi compiuti negli ultimi anni e soprattutto, com'è ovvio, dalla composizione dei test e dai criteri per assegnare o meno la sufficienza. Poiché da anni mi occupo dei test d'ingresso della Facoltà di Lettere e Filosofia di Pisa, e nei risultati non ho mai rilevato nulla di così grave, sarei molto curioso di sapere qualcosa si più. Ciò che posso dire io è che alcune scuole italiane non insegnano analisi grammaticale o analisi logica, contrariamente ai programmi, ma che, giusto per fare un esempio, studenti di variegata provenienza, a domande come:

Individua la frase che contiene un pronome personale:

A. Il dubbio mi era già venuto
B. Tutti e tre vogliono ripartire domani con il treno
C. Tuo zio ha chiamato due volte
D. Paolo arriva sempre in ritardo
E. Nessun dubbio!


... rispondono, correttamente, A nel 64% dei casi. A una domanda di analisi logica come:

Individua la frase che contiene un complemento di specificazione:

A. Hanno preso ancora del pane
B. Il libro grosso è di Paolo, ma gli altri non li riconosco
C. Tornerà per parlare di questa faccenda
D. Penso di arrivare in ritardo
E. Ha già detto che il suo motorino non lo presta a nessuno


... la risposta corretta (B) è data dal 52%; il 31% risponde "C", il che fa pensare che anche questo gruppo abbia ben presente, anche se a un insufficiente livello di correttezza, il concetto di "complemento di specificazione". Quali sarebbero le percentuali di risposte esatte tra, che so, i cinquantenni italiani? Parecchio più basse, direi a occhio.

Certo, chi si iscrive a Lettere e Filosofia è presumibilmente già orientato verso le materie letterarie - però lo stesso vale per gli studenti del Liceo Scientifico, e non è che in teoria alle superiori si recuperi tanta grammatica italiana. Né le matricole di Lettere e Filosofia provengono solo dai licei (anzi).

Ma, soprattutto, nelle verifiche di comprensione del testo questi studenti ottengono risultati ampiamente positivi anche nella decifrazione di pagine piuttosto complesse: per esempio quelle in cui Croce spiega somiglianze e differenze tra "concetto" e "intuizione". E c'è una differenza non da poco tra "conoscere la grammatica" e "conoscere una lingua" - anche se, in diversi punti, questo fatto sfuggire all'autrice.

Dopodiché, a molti studenti del I anno di Informatica umanistica io faccio scrivere voci di enciclopedia, e in generale i risultati sono ampiamente positivi. Ho fatto per anni lo stesso lavoro con gli studenti di Informatica tout court, ben lontani da velleità letterarie, e i risultati non erano troppo diversi: gli studenti sapevano articolare in modo soddisfacente, per iscritto, contenuti piuttosto complessi. Quelli con gravi insufficienze sono finora, nella mia esperienza, circa il 5% del totale.

Certo, si potrebbe (e dovrebbe) fare di meglio. Ma la situazione dell'educazione italiana non è affatto quella descritta in modo così approssimativo da questo libro. È una situazione complessa, non priva di zone buie, ma in sostanza di poco peggiore rispetto a quella dei paesi europei più immediatamente confrontabili.

sabato 2 aprile 2011

Un po' di buon senso?

Nell'incredibile massa di disinformazione che i giornali hanno sparso attorno al caso di Fukushima, qualcuno per fortuna sta incominciando a porsi delle domande...

Sul manifesto di oggi Pio d'Emilia, in un articolo sobriamente intitolato Viaggio alle porte dell'inferno (p. 16), racconta la propria sorpresa nell'arrivare vicino a Fukushima e scoprire che la zona è ancora piena di gente, e che tutti se ne vanno tranquillamente in giro senza tute protettive e senza troppe preoccupazioni. L'esordio dell'articolo è questo:

Qualcosa non quadra. I giapponesi non sono buzzurri, di radiazioni purtroppo ne sanno molto. E allora delle due l'una. O davvero, quanto meno per il momento, farsi una passeggiata nei pressi della centrale maledetta è come passare una giornata nel corridoio di una sala radiologia di un qualsiasi ospedale, oppure sono tutti pazzi, incoscienti e incapaci.

Già... Un po' alla volta, un po' di buon senso potrebbe anche farsi strada. Mettendo da parte improbabili ipotesi su complotti o enormi errori di valutazione, un po' alla volta anche i giornali di tutto il mondo (non solo quelli italiani... il che è la cosa più incredibile) potrebbero rendersi conto che, al momento e salvo sorprese, i problemi ai reattori di Fukushima hanno avuto un forte impatto economico, ma effetti medici pari a zero su chiunque si trovasse all'esterno dell'impianto.

venerdì 1 aprile 2011

Moriranno tutti. Anzi, forse no

In questi giorni tengo d'occhio le notizie sui problemi ai reattori nucleari di Fukushima. Per vari motivi, ma in buona parte perché i servizi giornalistici su questi argomenti sono spesso, purtroppo, esempi da manuale di come non si fa buona informazione.

Un esempio quasi perfetto lo fornisce l'edizione online di oggi del Corriere della sera, che presenta in discreta evidenza questi titoli (guardare per credere):

Titolone: I 300 di Fukushima: «Moriremo tutti»

Occhiello: ma hanno deciso di continuare tutti a compiere il loro dovere

Sottotitolo: I tecnici, soldati, ingegneri e pompieri che lavorano alla centrale sono tutti convinti di morire per le radiazioni

Leggendoli, sono sobbalzato. In base a quel che si sa, i problemi ai reattori non hanno prodotto alcuna conseguenza sulla salute di chiunque si trovasse all'esterno dell'impianto, e chi lavora all'interno lo fa in condizioni controllate. Non in sicurezza perfetta, purtroppo - pochi giorni fa, due lavoratori hanno ricevuto un irraggiamento pericoloso ai piedi, e in generale i livelli di radioattività a cui i lavoratori sono esposti hanno superato in 19 casi, anche se non di molto, la soglia dei 100 millisievert (al di sotto di questa soglia non si riesce a rilevare una correlazione significativa tra l'esposizione alle radiazioni e l'insorgenza di tumori).

Questo non vuol dire che siano tutti condannati a una fine rapida e terribile: vuol dire, alle dosi conosciute, che c'è il rischio - non la certezza - che, andando a riesaminare le loro storie mediche tra qualche decina di anni, si noti che l'incidenza di tumori tra le persone che hanno lavorato alla centrale è un po' più alta di quella che ci si potrebbe aspettare da un gruppo di controllo con pari caratteristiche. Un rischio basso, ma che per essere affrontato richiede senz'altro un notevole coraggio e una dedizione di cui non si può che essere grati.

Basso quanto? In questo settore è molto difficile arrivare a conclusioni indubitabili, ma qualche paragone si può fare con l'incidente di Chernobyl del 1986. In questo caso, le conseguenze sulla popolazione sono molto difficili da valutare, e forse inesistenti (conclusione da prendere con molta cautela, com'è ovvio), ma il caso dei lavoratori esposti immediatamente al grosso delle radiazioni è più facile da seguire. Non si tratta di un caso del tutto sovrapponibile a quello di Fukushima, perché a Chernobyl l'esposizione è stata molto più forte ed è stata ricevuta in assenza di adeguate precauzioni, ma proprio per questo il confronto risulta illuminante.

Secondo il rapporto UNSCEAR del 2011, quindi, subito dopo l'incidente 137 dipendenti dell'impianto e soccorritori vennero ricoverati per avvelenamento da radiazioni - con esposizione molto superiore a quella che oggi ricevono i lavoratori di Fukushima, di cui solo due sono stati ricoverati per un problema simile, ma causato da dosi molto inferiori. Dei 137 ricoverati, 28 morirono nei mesi immediatamente successivi, come succede per l'esposizione a dosi molto alte di radiazioni; gli altri, 25 anni dopo, pur essendo stati esposti a dosi decine o centinaia di volte superiori a quelle dei lavoratori di Fukushima, sono ancora quasi tutti vivi (nel frattempo ne sono morti altri 19, per varie cause spesso non collegabili in nessun modo alle radiazioni). Certo, le conseguenze di un'esposizione a radiazioni sono variate e imprevedibili, e non sono univocamente collegate alla dose assorbita, ma non sembra proprio che Fukushima possa diventare una perfetta macchina di morte.

Come mai allora i lavoratori giapponesi, presumibilmente ben informati della situazione, sono convinti di dover morire tutti per le conseguenze delle radiazioni? Una possibilità, naturalmente, è che sappiano qualcosa che il pubblico non sa, e che contraddice tutte le informazioni a oggi note . C'è però una possibilità alternativa più semplice: che la notizia sia, banalmente, falsa. E basta leggere il testo del miniarticolo per capire che in effetti, sì, il titolo è falso anche in rapporto al contenuto dell'articolo stesso.

L'articolo intanto traduce solo (e, per fortuna, lo dichiara: spesso non succede neanche questo) alcune informazioni pubblicate dal quotidiano inglese The Telegraph, che riporta la notizia in toni molto simili. Leggendo il testo, si scopre l'inghippo. Chi dice che i lavoratori "sono tutti convinti di morire per le radiazioni" (ciò che dichiara, letteralmente, il Corriere)? Risposta: nessuno. È la madre di uno di loro che:

has admitted that the group have discussed their situation and have accepted that death is a strong possibility.

Cioè, secondo la madre, i lavoratori si dichiarano disposti a morire "if necessary", come viene detto subito dopo, e ritengono che ci sia non una certezza, ma "una forte possibilità di morte". Cosa anche vera, per opportuni valori di "forte": dando per scontato che l'informazione di partenza sia vera, le ambiguità del linguaggio naturale, le incertezze della comunicazione figlio-madre e la traduzione dal giapponese all'inglese rendono priva di significato ogni speculazione più precisa. Per me, per esempio, anche solo una possibilità su mille è "una forte possibilità di morte", e mi rifiuterei categoricamente di svolgere una qualsiasi attività che comportasse un rischio del genere e non fosse indispensabile per salvare la vita a qualcuno. Però, su trecento persone, significa grosso modo che c'è solo una possibilità su tre che una di loro muoia (e due possibilità su tre che non succeda nulla a nessuno).

Insomma, anche in questo caso il giornalismo su Fukushima, sia quello originale che quello dei traduttori della "redazione online", non fa una bella figura. D'altra parte, chi mai leggerebbe un articolo intitolato "I lavoratori di Fukushima hanno riflettuto sul rischio di morte da radiazioni, e sanno che un qualche rischio c'è, e la madre di uno di loro dice che il rischio è forte"? Meglio sbattere nella home del principale quotidiano italiano un interessante Moriremo tutti. Senza curarsi troppo del fatto che l'informazione sia smaccatamente falsa.
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