lunedì 28 giugno 2010

Agostino, Ambrogio, Maria, Paolo e Guglielmo


Giovedì mattina sono passato da Milano per faccende editoriali. Naturalmente, con il (giustamente celebre) regionale che parte da Livorno, passa da Pisa Centrale alle 6.08, da San Rossore alle 6.14, e arriva a Milano via Fornovo alle 10.25, attraversando un paesaggio che nelle giornate di bel tempo è meraviglioso. Ritorno alle 17.05, con lo stesso treno: non è certo un Frecciarossa, ma visto che il biglietto a/r costa in totale meno di 34 € a/r, è di gran lunga il modo più ragionevole per passare un'attiva giornata di lavoro nella Capitale Morale (!).

Io ho approfittato dei tempi ferroviari per fare un salto anche in Sant'Ambrogio, dove, in paramenti adeguati al rango, sono adesso di nuovo esposti i resti mortali di, appunto, Sant'Ambrogio. Buona occasione per porsi di nuovo la famosa domanda: quando, milleseicento anni fa, Ambrogio era vivo e leggeva in silenzio, questo suo modo di fare stupiva i contemporanei oppure no? Le venerabili ossa oggi non possono più risponderci. Possono quindi spiegarci qualcosa solo le testimonianze scritte, e in particolare la descrizione fatta da Agostino nelle Confessioni (VI, 3), che da più di cent'anni è al centro dell'attenzione di chi si occupa di questo genere di questioni: "cum [Ambrosius] legebat, oculi ducebantur per paginas et cor intellectum rimabatur, vox autem et lingua quiescebant". Nietzsche, sembra, è stato il primo a ritenere che in queste parole Agostino esprimesse "stupore" davanti alla "stranezza" di Ambrogio, e la sua idea, ripresa da Norden, è diventata negli anni luogo comune. Ma questa ricostruzione corrisponde alla realtà storica?

Mary Carruthers (The book of memory, pp. 170-173) vota per il no. Secondo lei, la descrizione "is often misread" (p. 171); in realtà, nell'antichità classica la meditatio (silenziosa) su un testo conviveva con la lectio (ad alta voce) rivolta agli altri (p. 170). In questo contesto, ciò che sorprende Agostino non è la lettura silenziosa di per sé, quanto piuttosto il fatto che "Ambrose never red in the other way, though others were present ("et aliter numquam")" (p. 171). Secondo Agostino, Ambrogio poi si comportava così soprattutto per evitare interruzioni e domande da parte delle persone che aveva intorno. Quel che contava, insomma, era il fatto che anche in presenza d'altri Ambrogio preferiva "meditare" in silenzio: una questione d'atteggiamento più che di capacità. "Whether or not the vocal chords are used is a secondary difference between the two methods of reading" (p. 172).

A questo discorso replica negativamente Paul Saenger: la meditazione silenziosa su un testo, senza muovere la lingua, secondo lui, non era possibile di fronte a una scrittura priva di spazi tra le parole, come quella che Ambrogio si trovava di fronte. "When Carruthers translates comments on this passage in The Book of Memory, pp. 170-171, she projects o the text attitudes that are entirely postclassical. No ancient writer ever refers to reading as 'scanning' or meditatio" (p. 299, n. 41). Osservazione che mi sembra un po' fuori bersaglio, perché la meditatio di cui parla Mary Carruthers corrisponde in buona parte all'assimilazione di un testo, non alle attività di "rapid, silent reference consultation as it exists in the modern world", secondo la definizione dello stesso Saenger (p. 9).

Chi ha ragione? William A. Johnson ha pubblicato una sintesi delle discussioni su questo argomento, nella prospettiva dei classicisti, in Toward a Sociology of Reading in Classical Antiquity, The American Journal of Philology, vol. 121, 4 (Winter, 2000), pp. 593-627 (disponibile attraverso JSTOR):

Without hesitation we can now assert that there was no cognitive difficulty when fully literate ancient readers wished to read silently to themselves, and that the cognitive act of silent reading was neither extraordinary nor noticeably unusual in antiquity. This conclusion has been known to careful readers since at least 1968, when Bernard Knox demonstrated beyond reasonable doubt that the silent reading of ancient documentary texts, including letters, is accepted by ancient witnesses as an ordinary event (p. 593).

Questo smentisce in buona parte la ricostruzione della linea-Nietzsche, in cui si colloca anche Saenger. Alla critica del libro di Saenger, in effetti, Johnson dedica il dovuto spazio (pp. 597-598) nella sua sintesi: gli antichi acculturati, se volevano, potevano benissimo leggere senza muovere le labbra. Sembra che questo debba chiudere il dibattito.

La risposta finale, però, è più sfumata. In effetti, dice Johnson, esistono tipi molto diversi di lettura. I dati oggi disponibili mostrano che gli antichi erano capaci di leggere in silenzio. Ma mostrano anche che la lettura silenziosa non era, probabilmente, il modo normale di lavoro. Plinio il giovane, per esempio, descrive senza troppi moti di sorpresa il modo in cui Plinio il vecchio, per studiare, si faceva leggere ad alta voce da servitori e segretari mentre mangiava, mentre faceva il bagno, e così via (pp. 605-606). Comportamento oggi impensabile per qualunque studioso serio, e non solo per mancanza di schiavi... Nei paesi di lingua inglese esiste, certo, un florido mercato di audiolibri, ma solo per narrativa o saggi divulgativi, e non certo per i professionisti.

Insomma, forse non esistevano ostacoli invalicabili alla lettura silenziosa, ma di sicuro le modalità di uso e consumo della lettura erano profondamente differenti dalle nostre, e molto caratterizzate socialmente (Johnson insiste molto sul carattere di "attività di prestigio" che aveva la lettura). Anche se smentisce le posizioni più estreme sulla lettura, più che formule risolutive, insomma, l'articolo fornisce stimoli per la ricerca - il che non è un male.

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