giovedì 1 aprile 2010

Illich, Nella vigna del testo


Il passaggio dall'oralità alla scrittura ha attirato l'attenzione di un buon numero di appartenenti al clero o agli ordini religiosi cattolici. Un buon posto in questa classifica spetta a monsignor Ivan Illich (1926-2002) che, anche se in questo settore un po' sfigura davanti a gesuiti come Marshall McLuhan 0 Walter Ong, in passato ha goduto di un discreto seguito.

Illich si è dedicato con passione a molte cause, tra cui la lotta contro la scuola e la medicina tradizionali. Nel settore degli studi sulla scrittura però il suo contributo maggiore è stato Nella vigna del testo. Per una etologia della lettura. Io l'ho appena letto nella traduzione italiana di Alessandro Serra e Donato Barbone pubblicata nel 1994 da Raffaello Cortina a Milano. Il testo originale è del 1993, e presentava un sottotitolo meno ambizioso: In the vineyard of the text. A commentary to Hugh's Didascalicon.

L'Ugo cui faceva riferimento Illich non è un personaggio troppo noto: è Ugo di San Vittore, un teologo francese che verso il 1128 scrisse, in mezzo a molte altre opere, un trattato su quel che si deve studiare: il Didascalicon. Opera impegnativa, ma certo non epocale. Io l'ho sfogliata nell'edizione critica curata da Thilo Offergeld e non ne sono rimasto troppo impressionato. Illich la presenta però come una preziosa testimonianza del momento in cui si passa "Dalla parola registrata alla registrazione del pensiero" (titolo del sesto capitolo della Vigna). Il momento in cui, cioè, il testo scritto smette di essere uno "spartito" per una lettura ad alta voce e diventa invece uno strumento efficace per la lettura silenziosa. Entro la metà del Cento gli antichi elementi di produzione del libro

vennero integrati in un insieme di nuove tecniche, convenzioni e materiali. Alcune di queste innovazioni consistettero nella riscoperta di abilità già note agli antichi: per esempio la scrittura corsiva. Altre tecniche erano d'importazione: quella per fabbricare un nuova materia plastica, la carta, venne dalla Cina passando per Toledo. Altre ancora, più sottili, furono inventate negli scriptoria occidentali: la disposizione in ordine alfabetico di parole-chiave, l'indice per argomenti e un tipo di impaginazione adatto all'esplorazione silenziosa (pp. 95-96).

Tutto bene, eccettuato il fatto che il Didascalicon (come molte opere più interessanti) rimane al di là di questo spartiacque. Il suo è ancora "un trattato sull'arte di leggere a uso di persone che ascoltavano il suono delle righe" (p. 97). Illich impiega quindi le prime cento pagine del testo (su centotrenta, note escluse) a mostrare come il modo di leggere di Ugo fosse in continuità con pratiche dell'alto medioevo - in alcuni casi, reinventando tecniche antiche, a cominciare dall'abbandonata mnemotecnica (cap. 2, ripercorrendo argomenti che Mary Carruthers affronta in modo più approfondito nel suo The book of memory, di cui spero di parlare a parte). Le generazioni successive a Ugo saranno viceversa già abituate a una lettura di tipo "scolastico": la nostra, cioè quella per cui un testo si percorre con l'occhio alla ricerca di parole chiave, punti interessanti, e così via. In parallelo, "Si calcola che nei cento anni successivi alla morte di Ugo il numero dei rendiconti scritti e degli atti legali sia aumentato in Inghilterra da cinquanta a cento volte" (p. 99, con rinvio al ben noto studio di Clanchy). In sostanza, nella nuova civiltà della carta i documenti si usano in modo nuovo e diventano molto più diffusi.

Nella ricostruzione di Illich, quindi, il libro moderno viene creato "in quanto oggetto" intorno al 1150, mentre la nascita della stampa, tre secoli più tardi, si limita a reificare "tale oggetto sotto forma di stampato... Un insieme modestissimo di tecniche scribali, applicate in maniera molto sofisticata, determinò nella mentalità della cultura europea un tipo di cambiamento che è altra cosa rispetto al passaggio dalla scrittura alla stampa", e per certi versi ancora più importante (p. 119). All'inizio del capitolo settimo Illich dichiara quindi che:

È
questo un punto di vista che non è stato ancora sostenuto; non c'è un libro né un articolo di qualche ampiezza che tratti ex professo l'ipotesi che sia stata una rivoluzione scribale a creare l'oggetto che, tre secoli dopo, sarebbe stato consegnato alla stampa. Questo mio saggio intende rimediare alla lacuna (p. 120).

Sarà vero? Di sicuro la documentazione fornita da Illich è ridotta, e basata (ovviamente) su studi specialistici, poco attenti al quadro d'assieme. Però ho il sospetto che il discorso sia corretto nelle linee generali. Con un'importante variante: rispetto alle complesse strutture dei manoscritti da studio del Due e Trecento, il testo a stampa semplifica. Con la tecnica tipografica diventa molto difficile fare costruzioni arzigogolate, usare colori diversi, variare corpo e carattere, e così via. Insomma, dal punto di vista dell'occhio, la stampa rappresenta un passo indietro... e questo aspetto, direi, nessuno finora l'ha adeguatamente messo in luce.

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