martedì 9 marzo 2010

De Mauro, La cultura degli italiani


Pochi mesi fa è uscita la versione aggiornata del libro-intervista di Francesco Erbani a Tullio De Mauro (Laterza, 2010). Il testo originale era uscito nel 2004; l'aggiornamento consiste in poco più di trenta pagine (233-266) che diventano il tredicesimo capitolo, "La cultura degli italiani, cinque anni dopo". Anche la sezione già pubblicata è, ovviamente, interessante; ma vale la pena dire qualcosa di più sulla sezione aggiunta

Sia nell'aggiornamento sia nel testo, De Mauro insiste molto sul concetto allargato, in senso antropologico, di cultura. Al di là della linguistica, e al di là anche del perimetro della scuola. La distanza tra l'Italia e altri paesi europei, vistosa per quanto riguarda alcune pratiche intellettuali (incluse la lettura e la scrittura), si riduce molto se si esaminano le cose da questo punto di vista - come del resto, a livello di aneddoto, capita a molti di verificare di persona. La rassegna che fa De Mauro, in rapporto a uno studio della Fondazione Mondo Digitale, include quindi tra le attività "culturali" da tener d'occhio non solo le visite ai musei o la capacità di suonare strumenti musicali, ma anche la cura di uno orto o giardino, la manutenzione di un'auto o di una bicicletta (p. 244), o più in generale il livello della cucina e dell'igiene. Di solito nei confronti internazionali si guarda solo una faccia della medaglia, e invece le facce sono diverse.

Su alcuni punti più specifici, dall'importanza dell'educazione degli adulti alla necessità di interventi pubblici, De Mauro dice cose che è difficile non condividere. Sulla percentuale di investimenti che è ragionevole dedicare alla formazione sarebbe stato utile, viceversa, entrare un po' più in dettaglio. Erbani, in una domanda, cita un'opinione di Ignazio Visco, secondo cui "un anno di istruzione in più per la media dei lavoratori comporterebbe un aumento del prodotto pro capite del 5 per cento" (p. 250). Possibile, ma occorrerebbe anche precisare che in una vita lavorativa media (diciamo quarant'anni?) un anno di lavoro in meno corrisponde a un 2,5% di lavoro in meno. Senza contare il fatto che, sì, per il singolo individuo l'aumento dell'istruzione può essere rilevante sul lungo periodo, ma l'investimento in uno o più anni di studio va fatto di solito in blocco - cioè, si ha una perdita sicura a fronte di un ritorno probabile ma non del tutto certo.

Considerazioni a raggio tanto largo hanno un interesse linguistico? Secondo De Mauro, senza dubbio: "Cercare di capire come si articola oggi la cultura degli italiani è, a mio avviso, un pezzo importante dell'analisi della lingua italiana d'oggi" (p. 260). Opinioni più specialistiche sono comunque dedicate alla diffusione della lingua comune, che può essere usata dal 90% della popolazione ("Una convergenza del genere non si era mai vista nella nostra storia": p. 261), senza per questo cancellare i dialetti.

Il libro e l'aggiornamento si chiudono, infine, con il problema dell'educazione linguistica: mettere il maggior numero possibile di persone in grado di usare l'italiano "a pieno regime", oggi, nel parlato e nello scritto, continua a essere un obiettivo fondamentale. E, aggiungo (io sono un po' di parte...), se si può avere qualche incertezza sull'utilità dell'educazione letteraria, o artistica, non penso si possano avere dubbi sull'importanza di un miglioramento delle capacità di lettura e scrittura. Fino almeno al superamento di una soglia critica, che per me si identifica con la capacità di scrivere una relazione chiara, leggibile e documentata su un argomento tecnico o specialistico.

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