venerdì 30 gennaio 2009

Di ritorno da Leeds...


Mercoledì sono andato a Leeds per presentare le mie ricerche sul linguaggio del web a uno dei Research Seminar del Department of Italian. Finalmente ho potuto parlare di persona con Brian Richardson, dopo quindici anni che leggo i suoi lavori...

Ma l'Inghilterra è sempre una miniera di ispirazioni per il modo di scrivere i testi destinati al pubblico. Per esempio, lungo la strada ho notato un po' di cartelli stradali con contrazioni di parole segnate con l'apostrofo. Nott'am, se non sbaglio, per Nottingham. Vicino a Heathrow ne avevo viste altre del tipo He'row. Peccato non essere riuscito a vederle per bene, e a trascriverle! Non credo che in Italia si trovino esempi simili di scrittura per l'occhio.
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mercoledì 21 gennaio 2009

Manifesto per l'università pubblica?


Stamattina, in attesa dal dentista, ho letto il Manifesto per l'università pubblica (DeriveApprodi 2008) scritto da Gaetano Azzariti, Alberto Burgio, Alberto Lucarelli e Alfio Mastropaolo. L'occasione era propizia, perché il salasso finale sollecitava la riflessione: in una vampata di gloria ortodontica, tra anestetico e amalgama se n'è andato più di un quinto dello stipendio di gennaio... e, ahimè, a questa busta paga saranno probabilmente sottratte anche le due giornate di sciopero che ho fatto a fine anno. La poltrona del dentista si è quindi rivelata un ottimo posto per riflettere sul costo dei miei entusiasmi sindacali. E anche per rimuginare un po' su questo Manifesto. Che si legge molto in fretta: in parte perché conta solo 96 pagine, in parte perché è composto soprattutto da chiacchiere e luoghi comuni.

A farmi guardare con fastidio il Manifesto sono anche, professionalmente, alcune osservazioni linguistiche. Per esempio, a p. 17 Alberto Burgio prende in giro l'attuale Ministro dell'Istruzione, "crudelmente soprannominata Maria Egìda dacché - povera stella - sillabando in Senato il discorsetto stilato dagli uffici scivolò sull'accento di una parola ignota, traducendo l'ostica sdrucciola in una più familiare piana". Questi giochini su minime faccende di lessico mi hanno stufato da tempo. Chi se ne frega se il ministro dice egìda? Conta la sostanza del discorso (e più ancora quella dei fatti), non una cosa microscopica come questa. Il ministro avrebbe fatto meglio a conoscere la pronuncia esatta, beninteso; e meglio ancora a usare, invece di ègida, a seconda del contesto, una parola più comprensibile al pubblico generale e, sospetto, non meno precisa, come per esempio protezione. E vabbè. Non è lì il problema.

Però, che dire se chi prende in giro questi erroretti scrive, come fa Burgio, cose tipo "come verrebbero 'valutati' un Gramsci o un Gobetti, ammesso che qualcuno darebbe loro una cattedra di filosofia politica?" (p. 9)... Insomma, se vuoi prendere in giro chi fa errori di pronuncia, almeno impara prima tu l'uso dei modi verbali dell'italiano standard. Né il Burgio ("povera stella" anche lui, immagino, nonostante insegni "Storia della filosofia all'Università di Bologna"...) è solo in questa prassi. Gaetano Azzariti, che "insegna Diritto costituzionale" alla Sapienza, scrive incisi come: "benché, non essendo il mio campo, non voglio esprimermi con certezze che non possiedo" (p. 46). Lodevole scrupolo, ma reggenza verbale ben poco standard - al punto che cercando con Google si ottengono 905 occorrenze di "benché non voglia" contro una sola occorrenza di "benché non voglio" (in un post su forum). OK, etichettiamo per conto di Burgio anche Azzariti come "povera stella", chiudiamo il discorso sui formalisimi minimi e passiamo finalmente alla sostanza.

Da questo punto di vista, il Manifesto ha il (piccolo) merito di cominciare a fare i conti con L'università truccata di Roberto Perotti - che al momento spicca nel dibattito sull'Università perché è uno dei pochi testi che portino avanti una seria argomentazione fondata su dati. Alfio Mastropaolo lo cita, con riserve ma anche con apprezzamenti, alle pp. 24-25. Lo discute anche, implicitamente, quando parla del problema dei fuori corso. Questione fondamentale per la valutazione, perché, come si ripete spesso, se si fanno i conti sul numero di studenti il sistema universitario italiano risulta pesantemente sottodimensionato nel contesto europeo. "In Italia", dice Mastropaolo, "ci sono [sic, ma lasciamo stare...] più o meno un docente per 20 studenti. In Germania ce n'è uno ogni 12, in Gran Bretagna uno ogni 16, in Spagna uno ogni 11" (p. 36).

Il punto è che, come ha notato Perotti, la situazione cambia completamente se si fanno i calcoli con un parametro solo leggermente più sofisticato, quello degli "studenti equivalenti", in cui - semplificando - i fuori corso pesano meno. Operando in questo modo, il numero di studenti per docente in Italia risulta addirittura inferiore rispetto a quello di molti altri paesi. A questa obiezione fondamentale Mastropaolo risponde: "Epperò [il gusto per l'arcaismo non manca...], mentre da una parte i fuori corso sono in calo, siamo certi che i non frequentanti alleggeriscano di tanto il carico dei professori? Non li si vede a lezione (dove avere 100 studenti o 125 non cambia molto), ma sostengono esami, preparano tesi ed hanno le loro brave esigenze" (p. 36).

Obiezioni del genere sono la tipica risposta da "umanista italiano". Documentazione zero, chiacchiere tante. Perotti non dice genericamente "studenti fuori corso", ma usa l'indicatore dello "studente equivalente". Questo indicatore è ben noto e anche in Italia è stato usato per esempio per ripartire la quota di riequilibrio del FFO universitario. Il vecchio MIUR definiva questo indicatore, semplicemente, come il "rapporto fra il numero totale di esami superati in una data struttura didattica ed il numero medio di esami per anno, previsto per conseguire il titolo di studio nella durata legale, dagli specifici ordinamenti". Cioè, se i tuoi studenti devono superare 5 esami all'anno e la tua struttura ha fatto 50 esami, vuol dire che hai 10 "studenti equivalenti", indipendentemente dal numero degli iscritti effettivi. Insomma, Perotti ha usato parametri che tengono conto proprio dei fattori richiesti da Mastropaolo, cioè esami e tesi. Mastropaolo non ha fatto neanche un tentativo di ricerca su Google per capire di che cosa si stesse parlando; e in fin dei conti, dice l'"umanista italiano" medio, a che cosa serve controllare una definizione quando uno sa scrivere "epperò"?

Insomma, il Manifesto non è un contributo significativo alla discussione sulla politica universitaria. Peccato, perché ce ne sarebbe un gran bisogno. Per esempio, andando sullo specifico del caso appena discusso, non è affatto detto che l'indicatore dello "studente equivalente" si debba leggere nel senso indicato da Perotti. Il mio dubbio di fondo infatti è: non sarà che gli studenti diventano non frequentanti e danno pochi esami anche perché il corpo docente non riesce a gestirli? Non c'è abbastanza gente a lavorare e quindi, semplicemente, gli studenti si perdono per strada. Certo, le dinamiche del perché si diventa fuori corso sono complesse (Perotti ne parla, ma in modo che mi sembra ancora insoddisfacente); ma intanto, è possibile che il fenomeno dei fuori corso possa essere ridimensionato anche incrementando il corpo docente a un livello tale da gestire, stimolare e seguire tutti gli studenti che si iscrivono all'Università?

venerdì 16 gennaio 2009

Jackendoff su Lakoff

Da un po' di tempo sto studiando Foundations of Language di Jackendoff (2002). Il libro in sé è una sintesi interessante di quel che possiamo dire sul funzionamento del linguaggio; al momento però mi interessa soprattutto la parte che riguarda i modi di elaborazione delle metafore.

Il giudizio finale di Jackendoff sulla teoria di Lakoff e Johnson è il solito giudizio di buon senso, in stile Pinker: "Lakoff and Johnson's insight about the pervasiveness of metaphor still stands, if in a more limited fashion" (p. 359). La giustificazione di questo "more limited fashion" è data a p. 358. Il senso comune del termine metafora, spiega Jackendoff, è legato alle metafore creative. Gli esempi di Lakoff e Johnson riflettono invece una cosa diversa, cioè "a set of precise abstract underlying conceptual patterns that can be applied to many different semantic fields". Jackoff crede molto a questi "patterns", e in effetti buona parte del libro è dedicata alla loro esplorazione.

Tuttavia la contrapposizione tra questo modo di vedere le cose e quello di Lakoff e Johnson è molto ridotta. Le differenze di base sono date dal fatto che Jackendoff: 1. non chiama i prodotti dei suoi "patterns" metafore (e vabbè); 2. classifica meglio i "patterns", riconducendoli in modo più rigoroso ai meccanismi di elaborazione e creazione dei concetti. In sostanza, è una critica tutt'altro che radicale, visto che non discute i dettagli dell'impostazione di L&J ma solo il suo nucleo di base... che, a questo livello di approfondimento, ha senz'altro un certo grado di validità.

Da questo punto di vista, la critica fornita da Pinker in The stuff of thought è molto più approfondita e rigorosa perché l'ipotesi di L&J viene discussa nei dettagli. Dato per scontato a questo punto che il discorso di L&J sia eccessivamente baldanzoso, rimane il dubbio di vedere quanto siano identificabili e vincolanti i "patterns" sottostanti al linguaggio. Gli ultimi vent'anni di riflessione hanno fornito un po' di indicazioni interessanti da questo punto di vista, e il libro di Jackendoff sintetizza appunto alcune cose interessanti... ne parlerò in uno dei prossimi post.

martedì 13 gennaio 2009

Morrone e Savioli, La lettura in Italia


Il libro è una presentazione commentata (e molto dettagliata) dei dati prodotti dall'indagine ISTAT su I cittadini e il tempo libero condotta nel 2006. L'indagine in sé è un contributo molto importante alle conoscenze sullo stato della lettura in Italia; con questa presentazione commentata i dati diventano inoltre molto più fruibili.

Tutte le informazioni fornite sono molto interessanti (anche se alcuni commenti sono troppo semplicistici), ma a me in questo periodo interessa soprattutto il rapporto tra lettura e Internet. L'indagine ISTA non comprende la lettura di pagine web tra le attività di lettura, neanche in definizione allargata: "i dati non considerano la lettura di report di ricerca, di file pdf scaricati da Internet e di riviste specializzate" (p. 78). Sono compresi invece, per alcune parti dell'analisi, i lettori di quotidiani e riviste. Però ogni tanto qualche riferimento a Internet salta fuori comunque.

Per esempio, incrociando i dati sui diversi consumi culturali, Morrone e Savioli dichiarano che "I dati (...) mostrano inequivocabilmente che non esiste nessun effetto sostituzione tra la lettura nel tempo libero ed altri media (personal computer ed Internet in primo luogo)" (p. 27). Insomma, Internet non sostituisce la lettura ma la integra. Sull'argomentazione ho qualche dubbio, ma mi sembra importante vedere le cose in questo modo più che attraverso le lenti del luogo comune ("Internet ruba tempo ai libri").

L'indagine ISTAT comprende anche i "lettori inconsapevoli": persone che dichiarano di non aver letto neanche un libro nel periodo preso in esame, ma che in realtà, andando a vedere le risposte ad altre domande, hanno letto qualcosa che esse stesse non considerano "libro". Per esempio, romanzi rosa, guide turistiche e così via. Una percentuale sorprendentemente alta di questi "lettori inconsapevoli" ha letto "libri elettronici". Si tratta del 9,8% dei "lettori inconsapevoli" (p. 88), con una distribuzione molto asimmetrica per sesso (17,3% tra gli uomini, 3,4% tra le donne: p. 89). Morrone e Savioli, tra l'altro, ipotizzano che in casi simili sia il tipo di lettura non sequenziale a far sì che molti lettori di "libri elettronici" o di guide turistiche non si sentano veramente lettori.

Un'altra curiosità: chiedendo dove è stato preso l'ultimo libro letto, lo 0,1% dei lettori (0,2% dei maschi, zero spaccato per le femmine) risponde che è stato "scaricato gratuitamente da Internet", con un picco dello 0,2% nella fascia d'età 45-54 anni (p. 162 e succ.).

giovedì 8 gennaio 2009

George Lakoff, Non pensare all'elefante!


Come appendice dei lavori che seguo adesso sulla metafora e sulla sinestesia ho letto anche la traduzione italiana di uno dei più recenti libri "politici" di Lakoff, Don't think of an elephant! A livello di contenuto il libro è davvero leggerino. Sono saggi e interventi (piuttosto ripetitivi) di inizio millennio, centrati attorno alle sconfitte democratiche nelle elezioni americane pre-2008.

La cosa interessante è che Lakoff applica al discorso politico il suo discorso "scientifico" in modo immediato. Cioè, Lakoff ritiene che la metafora sia uno dei modi più importanti con cui gli esseri umani ragionano, e ritiene quindi che riuscire a imporre una metafora o l'altra al pubblico significhi farlo pendere per un partito o per l'altro.

I limiti delle idee di Lakoff sono quindi comuni sia al discorso politico che a quello scientifico. Come ha fatto notare Pinker, gli esseri umani usano sì metafore, ma non se ne fanno condizionare oltre una certa soglia. Le parole o i quadri mentali sono potenti strumenti di condizionamento, ma hanno forti limiti. E gli elettori votano sulla base di tanti fattori.

Detto questo, Lakoff ha il vantaggio di fornire un po' di idee stimolanti per far uscire il dibattito pubblico dal lessico e dalle metafore esposte dalla destra. Una parte delle sue idee è ridicola, un'altra parte è più praticabile. Interessante anche l'individuazione dei due modelli metaforici: il "padre severo" per la politica della destra americana, il "genitore premuroso" per quella della sinistra.

Applicando i discorsi al caso della politica italiana, in effetti, va detto che le metafore forti, quelle che hanno vinto negli ultimi anni, sono state tutte appannaggio della destra. Non ricordo studi scientifici su questi argomenti (anche se qualcosa dovrebbe esserci), però provo a fare una lista sintetica di espressioni di successo, rilanciate per anni da giornali e telegiornali:

- mettere le mani nelle tasche degli italiani (etichetta affibbiata a qualunque tassa del centrosinistra...)
- padroni in casa propria
- contratto con gli italiani

Per la sinistra ricordo solo il "tesoretto" - che non è neanche una metafora, ma una semplice etichetta, e pure sgradevole. Perché non provare a giocare al gioco di Lakoff e non proporre qualche alternativa di segno diverso (e più realistica) ad alcune definizioni recenti? Per esempio:

proteggere l'italianità = tassa occulta
classi ponte = barriere all'integrazione
eliminare le tasse sulla casa = spostare il peso delle tasse su chi lavora
eccetera...

lunedì 5 gennaio 2009

Stefano Malatesta, Il napoletano che domò gli afghani


Per Natale ho avuto in regalo da un amico questo libro. Regalo graditissimo, visto che fino a quel momento non avevo mai sentito parlare di Paolo Avitabile, militare borbonico che negli anni Trenta dell'Ottocento finì a fare il generale per i sikh di Ranjit Singh. Gli italiani che all'epoca riuscirono a costruirsi una fortuna in Oriente sono decisamente pochi, e ritrovarne le tracce è sempre interessante.

Il libro in sé, per il resto, ha un valore storico quasi nullo. E' scritto da un giornalista che appartiene evidentemente alla scuola italiana classica: tante chiacchiere e considerazioni da dopocena, fatti pochissimi. Date e bibliografia sono ridotte al minimo. Insomma, sembra di leggere una delle peggiori inchieste di Repubblica, piene di aggettivi e ammiccamenti al lettore ma prive di dati e talmente confuse che dopo un paio di paragrafi non si capisce più nulla. Ho provato a condensare le informazioni su Avitabile ricavate da questo libro in una voce di Wikipedia e sono venute fuori quattro righe... con un po' più di sforzo potrei fare di meglio, ma ne vale la pena?

Penso di no. Il libro sembra basato tutto sulla biografia di Avitabile scritta da Julian James Cotton. Malatesta ne parla come del libro "più inseguito" della sua vita (p. 25), cercato vanamente nelle biblioteche inglesi. Boh! Il libro risulta regolarmente in catalogo nella British Library (due copie), e la sua traduzione italiana si trova in parecchie biblioteche di casa nostra. Se uno dei miei laureandi avesse scritto in una bozza di tesi osservazioni del genere avrei dovuto segnargli tutto in rosso con la penna per architetti.

Comunque, dal mio punto di vista l'interesse massimo sta nel fatto che la biografia di Avitabile sembra ben conosciuta per la sua fase "indiana" ma non per quella "persiana". Sospetto che qui ci sia spazio per un utile lavoro!
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