mercoledì 6 febbraio 2008

Maraini: Segreto Tibet


Comincio a mettere un po' d'ordine negli appunti sulle letture recenti. L'ottica è quella del rapporto lingua-scrittura, ovviamente... anche se continuo ad allontanarmi dal discorso sul linguaggio del web. Alcuni punti mi sembrano tuttavia importanti comunque, e credo valga la pena fissarli qui.

Prendiamo intanto il Meridiano dedicato a Fosco Maraini (a cura di Franco Marcoaldi, Milano, Mondadori, 2007). Di qualche cosa ho già parlato. Rivedendo il volume, parto dall'opera che ha meno a che fare con questi discorsi: Segreto Tibet. Racconto molto bello della partecipazione di Maraini alla spedizione di Tucci nel 1948, subito prima dell'occupazione cinese. L'aspetto più pittoresco, peraltro, più che la visita al monastero Kyangphu o al villaggio di Yatung, è il ricordo di Tucci che nel mezzo delle solitudini dell'altopiano non rinuncia a farsi chiamare Eccellenza (in quanto Accademico d'Italia) o a vantarsi del proprio potere accademico... Bisognerà proprio che legga qualcosa di suo! Nel frattempo ho però scoperto un blog (di Enrica Garzilli) dedicato proprio a Tucci.

Tornando a Maraini: nella sua Storia del Tibet (1998) messa in fondo all'opera si parla anche di problemi di lingua e scrittura. Diverse volte nella sua storia il Tibet ha scelto l'India invece della Cina. Il primo di questi "momenti cruciali", secondo Maraini (p. 396), è appunto collegato alla scrittura: nonostante la lingua isolante molto simile al cinese, ai tempi di Songtsen-gampo (569-649) la cultura tibetana ha scelto di adottare per la scrittura un sistema alfabetico / sillabico modellato sulle scritture braminiche (l'enciclopedia di Coulmas ricorda che la grafia tibetana manca di sistemi per rappresentare i toni). Scelta opposta a quella del Giappone:

"Mentre i nipponici, partendo da una lingua fondamentalmente diversa dal cinese, altaica per grammatica e sintassi, malaio-polinesiana per fonetica e per alcuni aspetti del lessico, hanno scelto la scrittura ideografica, entrando con ciò in strettissima simbiosi culturale con la Cina, i tibetani, partendo da una lingua di struttura affine a quella sinica, hanno optato per una scrittura fonetica, sillabica, di origine indiana, volgendo con ciò le spalle all'Estremo Oriente ed immergendosi nel mondo spirituale del sud." (p. 401).

Di qui anche la scelta dell'allineamento di scrittura da sinistra a destra e i libri di formato indiano come caratteristiche della cultura tibetana. Ma oggi, con l'occupazione, "ideogramma e sillabario tibetano si oppongono spesso come due bandiere" (p. 401) e "il Tibet è stato coperto da un velo ideografico" (p. 447). Soprattutto, però, sono l'immigrazione cinese e l'imposizione violenta di un'autorità esterna a minacciare la lingua (e la scrittura):

"Si calcola ormai che Lhasa abbia più residenti cinesi che tibetani. Naturalmente la lingua parlata, anche dai tibetani, se hanno la minima ambizione di farsi avanti, è ormai il cinese; il tibetano è disceso al malinconico rango di lingua provinciale, di dialetto. E compaiono sempre più frequenti le scritte verticali, vergate in ideogrammi, a sostituire le eleganti frasi tracciate in sillabe della lingua di Milarepa o di Thonmi Sambhota, antica d'un millennio e mezzo. A scuola i programmi prevedono qualche ora di tibetano, ma esse vengono impartite da maestri e da professori cinesi, la cui pronuncia lascia ovviamente molto a desiderare." (p. 457).

In questo caso, sì, si va alla rapida glottofagia: riduzione in minoranza della popolazione originaria, emarginazione di una lingua per motivi politici ed economici. Caso drammatico ma per fortuna relativamente raro nel panorama mondiale.

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