lunedì 11 febbraio 2008

Inglese e italiano

Interrompo la schedatura di Maraini per qualche osservazione sul libretto di Andrea Chiti-Batelli. L'avevo già citato qualche giorno fa; adesso ho finito di leggerlo (sono solo 84 pagine, molto ripetitive) e devo dire che se all'inizio l'avevo trovato divertente, a lettura finita l'aggettivo più appropriato mi sembra "irritante".

L'autore stesso provvede a riportare una "breve sintesi finale" (p. 79) delle proprie tesi. Vale la pena commentarle al volo:

Sezione I, tesi 1: "L'Europa e il mondo necessitano di una lingua unica, la sola che può garantire col minimo sforzo la 'trasparenza' della comunicazione internazionale a tutti i livelli."
E su questo si può essere d'accordo, anche se chi conosce il modo in cui le lingue operano sa che quel "necessitano" si può parafrasare correttamente solo con un "possono beneficiare".

Tesi 2: "Questa lingua, allo stato attuale - dato il peso politico, economico, culturale del mondo anglo-sassone - non può esser se non l'inglese."
Su questo, poco da dire.

Tesi 3: "Essa però - come tutte le lingue imposte da un potere dominante - distruggerà in radice le altre lingue, se l'attuale situazione di squilibrio, e in conseguenza di tale egemonia, continuerà. La storia parla in proposito un linguaggio troppo univoco perché possa sussister il menomo dubbio."
E qui invece ci si sbraca. Non è affatto una regola che "le lingue imposte da un potere dominante" distruggano le altre. Lasciamo da parte il caso del latino, di cui spero di scrivere in dettaglio tra pochi giorni (esaurito un gruppetto di schedature). C'è lingua e lingua, c'è potere e potere. Perfino la conquista delle Americhe non ha "distrutto in radice" buona parte delle lingue precolombiane: le ha cacciate in una posizione marginale, ma solo perché l'importazione delle lingue europee ha prodotto veri e propri genocidi e travasi di popolazione. E questo è, negli ultimi secoli, il caso più estremo.

Nel resto del mondo, invece, che cosa vediamo? Alinei, credo, ha più ragione di quanto si ammetta di solito, e buona parte delle "invasioni" e sostituzioni linguistiche oggi date per scontate in realtà non sono mai avvenute. Anche assumendo il quadro concettuale tradizionale, però, il discorso cambia poco. La conquista araba e l'importazione di una religione basata sull'arabo hanno portato alla scomparsa delle lingue preesistenti solo in una parte del Medio Oriente. Né le conquiste islamiche né quelle britanniche hanno fatto cambiare lingua all'India. Il greco non ha ceduto né ai romani né ai turchi (che hanno dominato la Grecia per sei secoli). Il russo non ha soppiantato le lingue di innumerevoli popolazioni entrate a far parte, in tempi diversi, dell'impero russo o sovietico. E via dicendo.

La storia linguistica, insomma, non parla affatto un linguaggio "univoco". Anzi, la regola sembra essere la continuità: perché un popolo abbandoni una lingua a favore di un'altra occorrono invasioni, massacri e secoli di dominio. Se per assurdo gli attuali rapporti di forza potessero mantenersi senza opposizione e includessero per esempio l'incorporazione in un Impero Americano (il che è, come dire, improbabile), quanto impiegherebbe l'inglese per imporsi come lingua generale d'Italia? In Egitto la lingua copta si è mantenuta per almeno settecento anni dopo la conquista araba. Probabilmente è questa la scala temporale più realistica.

Saltiamo però al secondo gruppo delle tesi di Andrea Chiti-Batelli, che propone come alternativa all'inglese l'uso dell'esperanto, "una lingua pianificata, la sola che l'esperienza e la storia mostrano esser priva dell'effetto glottofagico proprio delle lingue vive" (p. 80). Soluzione, come si vede, improbabile al massimo. Ma qui mi interessa un altro aspetto del discorso: di quale esperienza e di quale storia si sta parlando? Nessuna comunità umana significativa ha mai adottato una "lingua pianificata" (o forse sì, ma in un senso completamente diverso da quello adottato in questo libro, in cui evidentemente l'autore ha in mente "rinascite" linguistiche come quelle dell'ebraico o del catalano, peraltro basate sempre su lingue spontanee... ma anche di questo spero di parlare più avanti). E quindi tutta questa sicurezza da che cosa viene? Non c'è nessun dato a suggerire che, divenuto lingua della comunicazione internazionale, l'esperanto non cancellerebbe le altre lingue.

Va anche detto che Chiti-Batelli, per assicurare che l'esperanto non divenga una lingua viva, va a imporre leggi e divieti (come ovviamente succede in tutte queste formulazioni utopiche) : "è fortemente sconsigliabile che si formino fanciulli aventi l'Esperanto come lingua materna" (p. 34). Ovvio che questo cancellerebbe le premesse del discorso. Ma come si potrebbe raggiungere questo risultato? Arrestando i genitori che osassero parlare esperanto con i bambini? Inserendo microspie in tutte le case?

Insomma, al di là della scarsa praticabilità della soluzione proposta al "problema" del dominio dell'inglese, in questo libro è molto irritante l'atteggiamento dell'autore. Che oltre a questo libretto, si dice in quarta di copertina, ha scritto opere come le Perplessità sulla pena di morte (e vabbè) o Si devono riaprire le case chiuse? (!); ma soprattutto, "è stato per venticinque anni, quale Consigliere parlamentare del Senato, Segretario delle Delegazioni parlamentari italiane alle Assemblee europee". Insomma, non mostra una grande conoscenza del modo in cui le lingue si sono distribuite nel mondo, ma è ben introdotto a livello politico. Non è un mix accattivamente, per me, quando si parla di politica linguistica.

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